Atteso alla prova dell’amato repertorio francese dopo la non felice (eufemismo!) avventura gluckiana, Alagna ha stupito tutti rinunciando a servirsi dei fratelli per “reinterpretare” a proprio uso e consumo la partitura. Stavolta, infatti, ha scelto di fare tutto da solo, appiattendo sistematicamente le dinamiche in favore di un perenne mezzoforte che, se gli permette di evitare falsettini e sbiancamenti (che puntali si presentano nei punti in cui il tenore tenta una forcella, una sfumatura, un colore qualsiasi, ad esempio nel duetto d’amore e nel terzetto conclusivo), toglie al canto qualsiasi nobiltà e finezza, riducendo il tormentato antieroe goethiano a un arzillo e burbero nonnetto che, tornato giovane, corre dietro alle sottane disponibili e sembra sommamente ipocrita nel dichiarare il suo amore alla bella Margherita, ché l’amore sta tutto… nella partitura, mentre nel canto del tenore siculo-francese non ne troviamo traccia, sopraffatto com’è da una costante tensione in acuto che si manifesta fin dal passaggio di registro. Dal fa in su non si contano i suoni stimbrati e spesso anche stonati, come nel Salut demeure chaste et pure, e quando imbrocca un acuto, come il si bemolle della sfida, il suono è raggiunto con sforzo udibile e anche visibile… manco fosse un fa sovracuto. E a proposito di sovracuti, il do de La présence è un falsettino miserello. Che un tenore non abbia do facili e saldi è ammissibile (anche se per un tenore come Alagna, di ascendenza lirico-leggera e ancora giovane di età, la cosa è preoccupante), ma in questi casi si ricorre al falsettone (se si è in grado di eseguirlo, ovviamente) o si abbassa il pezzo… o si cambia opera! Ma più ancora degli acuti sporchi e del registro grave dall’accentuato vibrato, è la mancanza di adesione al personaggio e alla poetica dell’autore – un po’ come nel caso di Villazón – a determinare il fallimento della lettura di Alagna, piuttosto impacciato e legnoso anche come attore. Viene da chiedersi come possa, in simili condizioni vocali e sceniche, affrontare un debutto impegnativo come Chénier (previsto l’anno prossimo a Monte-Carlo). Ma sicuramente questi sono interrogativi sterili e senza costrutto, rottami di un’epoca defunta… un po’ come la partitura di Gounod insomma!!!
Una maggiore proprietà di stile va riconosciuta alla sua coprotagonista Inva Mula, che a onta della vocina magra e stridula tenta a più riprese di infondere mordente e varietà al suo canto, operazione che sfortunatamente non riesce a portare a termine per irrisolti problemi tecnici. La ballata del re di Thulé è eseguita correttamente, anche se con fiati piuttosto corti, ma l’aria dei gioielli vede la cantante concedersi abbondanti sconti sulle agilità scritte, dal trillo sul si naturale centrale (semplificato) alle pasticciate scalette ascendenti, al la acuto scoperto di Ah! je ris de me voir (in primo enunciato stridulo, alla ripresa uno strilletto in pianissimo), alle stonature sulle frasette centrali ascendenti Est-ce toi? Réponds-moi, all’abborracciata esecuzione delle appoggiature e delle scale su C’est la fille d’un roi e Comme une demoiselle… Un urlo il si naturale conclusivo. E sarà bello tacere dell’accento, diciamo più adatto a una Manon pucciniana di provincia che si appresta a scappare con il malloppo. Certo Inva Mula sa essere un’attrice convincente ed è d’aspetto assai gradevole, ma tutto questo non basta a spiegare gli applausi frenetici che hanno salutato questa esecuzione, davvero dimenticabile. Certo la musica è tanto, ma tanto bella!!!
Musica bellissima è anche, o per meglio dire dovrebbe essere, quella del successivo duetto, qui funestato da larvali pianissimi tutti di gola provenienti dalle ugole dei malcapitati protagonisti. Alla stretta le urla della Mula (il do di Cédez à ma prière e il la bemolle di Partez! J’ai peur – eseguito con sprezzo del pericolo, e sì che Gounod avrebbe previsto un comodissimo “oppure” un’ottava sotto!) sono una sorta di presagio della scena della chiesa, in cui la bella Inva dà fondo a tutte le proprie energie (e anche a quelle dell’ascoltatore di timpano sensibile), tanto che nel terzetto finale suoni rauchi e soffocati si sostituiscono agli ormai consueti stridori. A conti fatti la scena migliore è risultata la prima del quarto atto, Il ne revient pas, dove la Mula, malgrado la povertà del registro centrale in questa pagina eminentemente sollecitato, ha adottato un tono raccolto (preparatorio alle esplosioni del quadro successivo) che l’ha aiutata ad arrivare in fondo senza troppi danni, fatto salvo, ovviamente, il si naturale di Mon maitre (anche qui, ovviamente, è stata trascurata la possibilità di ricorrere al fa diesis previsto in “oppure”).
Il Diavolo, René Pape, ha dalla sua una conveniente allure scenica e una voce di bel timbro, anche se più da baritono puro (sebbene corto e un po’ schiacciato in alto) che da basso-baritono. L’incosistenza del registro grave toglie spessore drammatico alla scena della chiesa, mentre gli acuti difficoltosi e a rischio d’intonazione privano la celeberrima serenata del suo fascino beffardo e crudele. Non male, sebbene lievemente ingessata, la ballata del secondo atto, che tuttavia dovrebbe recuperare in eleganza quello che perde in vigore. Fra i cantanti principali, Pape è quello che a conti fatti si disimpegna meglio, anche se negli assieme tende un po’ a sparire.
Terribile Jean-François Lapointe, che non si accontenta di sbracare nel più assurdo verismo nella scena della morte come molti altri Valentin del suo rango, ma esegue, o meglio, muggisce anche l’aria aggiunta al secondo atto. Per Dame Marthe (Marie-Nicole Lemieux) il pensiero torna a Rodolfo Celletti, il quale auspicava, in luogo delle pessime Quickly regolarmente scritturate dai teatri, il ricorso a una Lina Volonghi addestrata alla bisogna. Stante l’esiguità della parte, una Nadia Rinaldi potrebbe essere una soluzione papabile per l’amabile vedovella. Curioso il ricorso a un tenore per la parte di Siébel, una soluzione che ci riporta indietro di svariati decenni, ai tempi dei tenorini di grazia manierati, smancerosi e strangolati. Precisamente a questa schiatta appartiene Xavier Mas, che la regia trasforma – come se non bastasse la goffaggine insita nella parte – in poliomelitico.
Michel Plasson adotta tempi letargici e concerta svogliatamente: l’orchestra, rispetto al coro, può se non altro compiacersi di un suono bello e intonato. Spettacolo elegante, senza grandi idee, di Nicolas Joel, con un immenso organo come unico décor e qualche soluzione non proprio logica rispetto a quanto previsto dal libretto (non si capisce come mai Margherita, abbigliata da ricca borghese, possa dimenticare la propria virtù di fronte a un cofanetto ricolmo di pacchiana bigiotteria).
Gli ascolti
Gounod – Faust
Acte I
Mais ce Dieu que peut-il pour moi? – Fernand Ansseau & Marcel Journet
Acte II
O sainte médaille … Avant de quitter ces lieux – Mattia Battistini
Le veau d’or – Pol Plançon
Acte III
Salut, demeure chaste et pure – César Vezzani
Il était un roi de Thulé – Helen Jepson
Ah! Je ris de me voir si belle – Marcella Sembrich
Il se fait tard – Licia Albanese, Raoul Jobin & Ezio Pinza
Acte IV
Seigneur, daignez permettre – Gina Cigna & Nazzareno de Angelis
Vous qui faites l’endormie – Lucien van Obbergh
Par ici, par ici, mes amis … Ecoute-moi bien, Marguerite – Leonard Warren
Acte V
Alerte! alerte! – Eleanor Steber, Brian Sullivan & Jerome Hines
Ineccepibile ovviamente.
Dagli estratti ripresi manca però quello che, a mio parere, è il più grande valentin documentato dal disco: pavel lisitsian (dall’integrale con kozlovsky e pirogov).
cari saluti a tutti.
Emanuele