Il soprano Colbran sembra essere una sorta di araba fenice e più ancora la dannazione del festival. Piace soprattutto dire e far credere che siano ruoli di mezzo soprano. Tutti i grandi, grandissimi mezzo soprani dotate di un minino di acume e di buon senso hanno rilevato che le parti della Colbran non sono parti a loro interamente adatte e lo stesso lamentano i soprani. Soprani lirici o al più lirico spinti.
Allora dove si trova l’ubi consistam credo nel fatto che la scrittura convenga di fatto ad un soprano piuttosto centrale. A prescindere dalla abbondantissima ornamentazione che connota più di qualsiasi parte scritta per voci femminili della storia del melodramma ( e poco conta se servisse a mascherare l’incipiente declino della Colbran o perché per Rossini la melodia nascesse già ornata) le parti della Colbran sono e rimangono convenienti per quelli che poi saranno i soprani drammatici. Sino al tardo Verdi. Ad una Ponselle, piuttosto che ad una Arangi Lombardi ed anche ad una Cerquetti, tanto per citare i più indiscussi soprani drammatici, addestrate, abituate ed allenat al canto d’agiltà le parti della Colbran sarebbero state a meraviglia. Senza i problemi di frasi acute che angustiano i mezzo soprani , anche se dotate di si nat e do facilissimi o i soprani di agilità.
A scanso di equivoci e per spegnere facili entusiasmi Sonia Ganassi non può rispondere alle caratteristiche vocali della signora Rossini e tanto più essendo la gloria di Reggio Emilia cantante di limitata cognizione tecnica
C’è poi l’altro problema o busillis che riguarda Ermione ovvero il suo essere opera alla francese, opera declamata e via discorrendo. Inviterei i convinti di tale opinione a studiare titoli come Artemisia di Cimarosa o Elfrida di Paisiello. E poi spartito alla mano compiano in Ermione tanti passi declamati quanti in Otello o Maometto II e pure passi acrobatici di difficoltà pari o superiore a Donna del Lago o Armida. E per tutti i personaggi. Prova questa , probabilmente che per Rossini la scrittura nasceva di suo fiorita. Certo una fiorettatura che di volta in volta con l’uso dei medesimi strumenti è chiamata a manifestare tutti i sentimenti degli esseri umani.
Quello che invece Ermione declina al massimo grado è il Neoclassicimo. Quello della Restaurazione però, quindi legato alla precedente tradizione. Ecco perché il passato allestimento pesarese con i suoi chiari riferimenti al tardo barocco napoletano era un fuor d’opera. Come credo sia l’attuale che con scena vuota e abiti novecenteschi non è affatto astratto ed atemporale.
Noi non sappiamo come suonasse l’orchestra del San Carlo e come accentassero Isabella Colbran piuttosto che la Pisaroni. Abbiamo però chiare nella nostra mente le idee adi ampiezza, nobiltà ed aulicità che questa sera nella compagine assemblata dal ROF latitavano e non poco.
Seguendo i numeri dello spartito
Ouverture con il coro: il direttore alle prese con una serie di cambi di tempo è metromico. Il coro molle, lento. La tragicità classica è superata da colori e sonorità adatte all’opera di mezzo carattere. Un bel Bruschino.
Cavatina di Andromaca: l’emissione della Pizzolato, che in natura sarebbe un soprano non è immascherata in prima ottava. La voce come sempre in questi casi è scissa in due tronconi, l’accento, mancando di ampiezza la voce, è esagitato nelle battute che conducono dall’andate all’allegro. Allegro che nel da capo è coronato da semplificazioni e non da variazioni. Moda questa ormai regola negli attuali allestimenti.
A peggiorare la situazione un coro sgraziato e non troppo preciso.
Duetto Ermione/Pirro. Tralascio il coretto di inizio da festa dell’oratorio. La Ganassi è pesante e verista. Quando pronuncia la frasetta “affar non lieve” dove Rossini prescrive “con ironia” l’accento e il tono è da “Assai più bella è Lola”. E questa sarà la cifra interpretativa della Ganassi per tutta la sera. Evidentemente si è convinta che si tratta di opera declamata e che il declamato sia atemporale ossia lo stesso in Rossini che in Pizzetti.
Procedendo in maniera verista, anche vocalmente, la Ganassi ghermisce tutte le note superiori al la e se la nota compare in una figura ornamentale senza troppi pentimenti prende fiato e bercia la nota acuta, un si naturale. Con questa organizzazione la vocalizzazione è difficile. Vedasi il “pertinace ardor”. Quanto a Kunde la parte è troppo bassa per lui. Il gonfiare o almeno cercar di dare un poco di corpo al centro comporta suoni afoni sul passaggio e grida in zona acuta (un tempo la migliore del tenore americano). Nella sezione centrale del duetto nessuna dinamica e la Ganassi fa, naturalmente, carne di porco della prescrizione “dolce” alla cadenza. A riprova di quanto in premessa nel da capo la Ganassi non esegue variazioni, ma semplici raggiusti all’ottava bassa.
Cavatina di Oreste
L’introduzione di un passo che dovrebbe essere il paradigma dell’ansia e dello sconvolgimento dell’animo, è pesante. Non giova al carattere tragico del personaggio il timbro chiaro e bianco (sbiancato) di Antonino Siragusa, il cui accento dalle prime battute “reggia abborita” (anche le consonanti hanno il loro valore espressivo) è generico e più idoneo alla farsa o all’opera di mezzo carattere. Credo che il problema di Siragusa, cantante estesissimo in alto per natura sia quello di eseguire male o in ritardo il secondo passaggio. Quindi i si nat di “ardor” nell’entrata sono sbiancati. E per precisione lo sono in tutta l‘opera, come dimostra il pertichino di Oreste nella grande scena di Ermione all’atto secondo. Anche per Siragusa, comunque il migliore della serata, le variazioni sono semplificazioni e certi topici dell’aria come i 7 trilli nelle battute di conducimento o le quartine nelle code sono omessi (per inciso i trilli verranno omessi anche nel resto dell’opera). Niente di grave, se il resto fosse di livello e consono a personaggio ed autore.
Aria di Pirro
Certamente il momento più infelice della serata. Stupisco che Kunde abbia finito. Certo l’aria è di dimensioni mastodontiche, richiede versatilità nel canto spianato ed in quello di agilità, chiama in causa tutte le zone della voce. Insomma Andrea Nozzari aveva da essere un monstrum vocale.
A parte che l’introduzione da marcetta gela la situazione. Ermione non è una farsa .
I difetti sono quelli del duetto. Ossia Kunde manca di ampiezza quando scende. E le cose non vanno meglio in alto. I si, do e re centrali sono afoni. Spesso è stonato e non è certo aiutato nella sezione centrale dai pertichini di Ermione, il cui accento rammenta quello delle peggiori Gioconde.
Arrivato all’allegro rappezzato, tagliato nelle kilometriche code emette urla scomposte.
Duetto Ermione /Oreste al finale primo
Decente la prima parte di scrittura spianata. Però Ermione non è solo canto, ma anche interpretazione e questa latita perché in scena abbiamo Angelina e Ramiro. Quando alla sezione centrale arrivano le figure ornamentali e espresse indicazioni di crescendo abbiamo solo suoni duri e scomposti.
Finale primo
Bellissimo, inventiva musicale straordinaria (e mi meraviglio che Rossini, il miglior giudice di se medesimo non lo abbia riciclato in altra sede) è connotato da un direttore pesante e dalla difficoltà della Ganassi. Non se la passano meglio i due tenori la cui scrittura è acrobatica e non si sente la Pizzolato, che come sempre si impone ai contralti, dovrebbe fare il pedale.
Atto secondo
Duetto Pirro / Andromaca
Non c’è molto da aggiungere atteso che la voce della Pizzolato è divisa in due tronconi e Kunde fa molta fatica nella zona grave della voce. Abbiamo poi un educativo esempio di come si possa essere assolutamente inespressivi alle prese con le agilità della stretta che sono prive di slancio, erotico per lui e suicida per lei.
Grande scena di Ermione
Fiumi di inchiostro su questa scena, declamata si dice. Poi se andiamo a guardare duine, terzine e quartine forse il concetto di declamato cambia.
L’ accento è verista. Per la Ganassi, in vena di stilismo, accenta e confonde “di che vedesti piangere” come “una volta c’era un re”. Nessuna ampiezza nella zona do, re, mi centrali, che – guarda caso – è quella del passaggio superiore del soprano. Quando esegue la volata di “che volle dir viltà” emette suoni acidi e trilli cigolanti.
Per capire la distanza fra lo stile tragico e l’esecuzione che dello stesso offre l’attuale protagonista invito ad ascoltare le terzine di “del suo fallir”.
La seconda sezione “Amata l’amai” condita con singhiozzi delle migliori Santuzze di provincia, è priva delle forcelle previste da Rossini, le terzine di “acerba ferita” sono grottesche e quando arrivano le frasi scomode delle “in queste catene vo fida spirar” il rappezzo è la regola. Della scrittura di Rossini resta poco.
Di Rossini e della tragicità resta poco quando entra il coretto delle damigelle
Meno ancora rimane della cabaletta. Non siamo certo noi quelli che ci scandalizziamo di una’aria abbassata (vedi Horne nel Falliero o nel rondò di Tancredi). Anzi, ma i rattoppi della Ganassi, che deve evitare la zona più connotante la voce del soprano perché in quella zona non ha lo slancio e l’ampiezza che la parte richiede, sono una presa in giro. Soprattutto dopo i proclami che a Pesaro hanno trovato il soprano Colbran.
Finale duetto Ermione/Oreste
Parto con una interrogativa (retorica?) se Rossini prevede trilli sulle parole “o se l’aborro ignoro ancora” che vuole dirci. Che Ermione non deve sbraitare, strillare e contorcersi come faranno le gelose di fine secolo tipo Santuzza e poi dove è finita l’esemplificazione del classico e dell’aulico quando da un lato Ermione singhiozza ed Oreste, alle prese con una tessitura stratosferica ha peso specifico, colore ed accento da Paolino del matrimonio segreto. E siccome Rossini e dona Isabelita amavano il canto di bravura quando compaiono alla stretta le duine la Ganassi le fa a pezzi, non accenta accompagnata da un’orchestra pesantissima e morchiosa.
Un tenore da opera di mezzo carattere in un ruolo serio, un tenore che dovrebbe essere un baritenore e del baritenore non ha le note e il vigore, una protagonista, che viene spacciata per la resurrezione della prima protagonista, che non ha voce e colore di mezzo soprano, mentre sarebbe assai più onesto dire che, seguendo una prassi del tempo, la parte è stata appuntata per una cantante che non è a suo agio nelle parti Colbran, una antagonista che ha peso specifico, colore identico alla protagonista e una direzione che, ad essere clementi ha condotto in porto lo spettacolo, ma che in realtà è state inerte, scentrata per stile e gusto.
Il primo assunto è relativo, non parametrato e quindi non mi interessa. Quanto all’epifania del canto rossiniano non tirerò fuori i soliti nomi e personaggi della storia del canto. Mi limito ad invitare i nostri certi e fedeli detrattori a leggere un po’ di Foscolo (gli scritti di storia della letteratura) e lo spartito di Ermione.
Notte a tutti!!!
Gli ascolti
Rossini – Ermione
Atto II
Vendicata! E di qual sangue?…Fiere Eumenidi, sorgete – Nelly Miricioiu & Bruce Ford
Cattivi ed esagerati non saprei, certo io ci devo andare sabato e devo dire che una certa inquietudine me l’avete messa…
Quella dell’abbellimento in funzione espressiva è questione a me carissima che cercavo di spiegare proprio un paio di giorni fa a una mia vicina di sedia verdiana convinta. Cercavo di trasmetterle tutta la magìa, l’incanto di Rossini che usa le note (di cantanti e strumenti) come gorgheggi d’uccelli, come echi di natura (e pensavo ai mattutini albori della donna del lago ecc. ecc.). La bua è che poi il cantante la deve trasmettere, usare, questa potenzialità espressiva, deve tradurre la scrittura musicale in suono ed accenti, e non come se andasse in palestra a fare le sue cento flessioni con l’istruttore e alla fine chi s’è visto s’è visto. Come dico non so se questo sia davvero il caso di Ermione perché ancora non ci sono stata. Ma ho fatto ‘sto popò di preambolo perché chiedo a voi, che ne sapete: e la scuola di canto?
Immagino abbiate già trattato l’argomento in qualche post, io sono una vostra lettrice dell’ultima ora… eventualmente, mi usereste la cortesia di mettermi il link al post?
Grazie.
E scusate l’imprecisione del discorso, ma sono solo un’amateuse…
Cara Mamikazen,
la scuola di canto che insegna i modi del belcanto sono da sempre il Garcia ed il Lamperti.
Qualcosa orse è anche accennato nei video che abbiamo linkato in fondo alla recensione dell’ultimo disco di florez da sutherland ed horne.
ricordo numerose interviste proprio della horne circa ‘inssegnamento tratto da lameprti e garcia.
Lo stesso Bonynge ha sempre affermato, anche l’inverno scorso a bologna, come il belcanto italiano sia figlio della scuola bolognese e napoletana dei castrati, passata poi ai grandi cantanti di rossini e immediati successori, e testimoniata a noi dagli scritti di garcia.
……ne riparleremo comunque
a presto e sappici dire la tua impressione dopo la recita ai sabato
Io non ho elementi per contestare sul piano tecnico stile, valore e merito delle recensioni. Sono convinto che voi ne sappiate e, quindi, di voi mi fido. Mi piacerebbe, però, leggere un contraddittorio. Il fatto che non ci sia e non avvenga mai, mi lascia pensare che le critiche siano fondate e pertinenti e perciò inconfutabili. In pratica, no match. D’altra parte le critiche esposte non sono mai gratuite e sempre appoggiate a dati e riferimenti, nel più puro e granitico stile “cellettiano”. Detto questo, però, mi preme sottolineare che un evento musicale non si può giudicare solo sulla base della partitura e di un canone che sia solo quello. Ci sono le atmosfere, quelle che insorgono al momento della rappresentazione o del concerto e che hanno per protagonisti, da un lato, chi sta sulla scena e, dall’altro, chi è in platea (in senso ampio). Quello è un momento irripetibile e diverso a ogni rappresentazione. Sotto questo profilo non mi è sembrato che le cose, domenica, abbiano funzionato tanto male. Colpa di un gusto fatto ormai a pezzi? Specchio della degenerazione dei tempi? In tutti i campi, anche nella mia attività di lavoro, che c’entra poco con la musica, non mancano i “laudatores temporis acti”, uomini insopportabili, fuori dalla storia e tuttavia necessari. Per loro i tempi peggiorano, sempre. Poi, però, guardando le cose in una prospettiva più ampia, non possiamo non convenire che di strada il mondo ne ha fatta e non in peggio. Tutto cambia e se le nostre “orecchie”, oggi, godono, a livelli infinitamente più bassi, rispetto a quelle degli uomini di un tempo, è perché sono martoriate dai rumori e basta qualcosa che abbia sembianza di un profilo armonico e melodico, per farci star bene, magari portarci “ad sidera” o, per me, semplicemente, in un altrove. Sotto questo aspetto la musica di Rossini, sia eseguita bene o male, per me funziona sempre efficacemente e, anche ieri, ho goduto le mie tre ore di “altrove”, in modo rigenerante. Il fatto, che tutto poteva essere migliore, non lascia tanto la bocca amara, quanto una speranza: che il meglio può ancora accadere, o almeno una consolazione: che, se non verrà, quello di oggi è già il meglio e per tale l’ho percepito. Direte che è un’ottica minimalista: è vero. Foscolo, da voi citato, non approverebbe. E non approverebbe nemmeno il “mio” (a 9 anni cantavo a memoria tutta l’Italiana, edizione Giulini) Gioachino, che preferì ritirarsi, quando vide che il gusto supremo del bello stava per corrompersi. Ma lui, genio, intelligente, si guardò bene dal combattere una battaglia persa contro la storia, e io, piccolo uomo, mi accontento di una poltrona e di un “Rip Van Winkle” dentro la mano, con tutte le suggestioni che il personaggio di Washington Irving e il sapore di quel whisky suggerisce. Ho sproloquiato, scusate. Comunque, grazie per l’attenzione e complimenti per il vostro “Corriere”: si imparano molte cose, si ascoltano delle autentiche “chicche” e si migliora il proprio bagaglio culturale e dove c’è cultura c’è libertà, il dono supremo. Diego Giunta
Beh, caro Tancredi, il contraddittorio è fatto dai commenti che, come il tuo, accompagnano le nostre proposte. Se hai avuto modo di leggerci avrai notato come spesso ci si confronta con opinioni e posizioni differenti (ci sono alcuni post che annoverano tanti interventi più o meno contrari alle nostre posizioni: e a ciascuno abbiamo dato risposta nel modo più completo ed esauriente). I commenti sono sempre i benvenuti, c’è libertà TOTALE (anche se qualcuno, talvolta, utilizza tale libertà per insultare o prendere in giro), e se introducono una discussione serena e civile – come nel tuo caso – sono assai costruttivi perchè permettono a noi di meglio esporre i nostri assunti (cercando di convincere, ovviamente) e a chi scrive di instaurare un dialogo. Naturalmente noi abbiamo una certa posizione, è palese, dichiarata e manifestata con onestà e trasparenza. Non è mai preconcetta però, infatti, come avrai notato, diamo riscontri oggettivi e argomentazioni. E neppure è passatista per partito preso: quando c’è da lodare il presente che merita (purtroppo non spesso come vorremmo: nessuno di noi è masochista, tutti vorremmo andare a teatro e goderci un buon spettacolo) lo facciamo con entusiasmo. Crediamo però nel confronto, l’arma più formidabile per fare una critica musicale onesta e sincera.
A presto Tancredi: e intervieni con commenti, saranno sempre graditi.
Un saluto
Caro Tancredi, in primo luogo grazie delle sue parole.
In secondo luogo grazie ancora per la puntualizzazione circa il rapporto presente passato, perchè ci ha dato spunto per affrontare, e lo faremo prestissimo, i necessari chiarimenti alla nostra posizione “passatista “.
Più volte abbiamo rilevato obiezioni alle nostre posizioni, e credo che vi siano aspetti più generali che sfuggono alle recensioni minute, e che meritino di essere ampliati o esplicitati.
Chiariremo presto il perchè ed il senso del nostro “passatismo”….perchè, sebbene possa sembrare vero il contrario, ci rendiamo benissimo conto che il tempo scorre e che il gusto evolve, ma che quanto invece non debba “involvere” sia la pratica del ferri del mestiere. E quanto certe involuzioni di fatto determinino un “gusto” presente che più che scelta artistica pare solo….limite di una tradizione che sfugge.
grazie ancora per il suo messaggio
gg
quanto invece non debba “involvere” sia la pratica del ferri del mestiere. E quanto certe involuzioni di fatto determinino un “gusto” presente che più che scelta artistica pare solo….limite di una tradizione che sfugge
Sono molto d’accordo con questo passaggio estrapolato dal commento della Grisi.
Anche io sono rimasto molto deluso dalla prova della Ganassi, ma più che dall’interlocutoria resa vocale dall’assoluta mancanza del fraseggio adeguato, nonostante gli indubbi sforzi in questo senso.
E’ vero Pruun, a parte le evidenti difficoltà vocali della Ganassi (direi oggettive), la mancanza più grave è stata la totale assenza del giusto linguaggio: fraseggio aulico, temperamente tragico e “dignità” neoclassica. E tale mancanza è più grave perchè mostra come l’interprete non abbia assolutamente afferrato il senso del personaggio, il suo ruolo e la sua visione estetica (in questo, c’è da dire, coadiuvata dalla chiassosa e superficiale bacchetta di R. Abbado). Tuttavia credo che i due problemi (mende vocali/assenza del giusto fraseggio) siano in stretto rapporto tra loro. La Ganassi impegnata a sforzarsi d’entrare in una parte al di là delle sue possibilità, per mancanze tecniche e naturali, non può neppure provare a cercare l’accento tragico: sbraca perchè è già al limite. E la questione è la solita: il fraintendimento dei ruoli Colbran. Il fatto che talune fonti la tramandino come soprano e altre come contralto, non autorizza nessuno – dotato di senso logico – a cercare salomonicamente la via di mezzo: cioè il mezzo soprano. In questo caso “in medio NON stata virtus”. La vocalità Colbran, particolarissima e difficilissima richiede un soprano sicuro nell’acuto e con centri corposi e caldi: una voce cioè, che non stia a metà tra soprano e contralto, ma che ne assorba entrambe le caratteristiche. In questo senso la scelta di un mezzo soprano abbastanza corto come la Ganassi è scelta sciagurata, perchè già in partenza si sa che “il vestito è troppo largo”. Il problema, però, è che alla grande maggioranza del pubblico tutto questo sta bene. E il ROF che, seppur immeritatamente, è luogo che dovrebbe “fare giurisprudenza” in campo rossininao, non fa che avallare l’equivoco.
Concordo con quanto scritto da Donzelli su questa Ermione, che ho trovato sostanzialmente disastrosa.
Mi incuriosisce però ciò che scrive Duprez sulla vocalità Colbran, che mi vede in parziale disaccordo. Noi non abbiamo avuto modo, purtroppo, di sentire Isabella Colbran quindi non possiamo sapere come fosse realmente la sua voce, anche se ovviamente dalla scrittura rossiniana si deducono molte cose; oltretutto la voce richiesta è piuttosto rara da trovare, oserei dire unica, in quanto richiederebbe, come dice giustamente Duprez, voce larga e sontuosa nel registro centro-grave ma allo stesso tempo svettante in acuto e in grado di affrontare agilità di forza. Per intenderci i il corpo centrale di una prima Cerquetti o di una Tebaldi con gli acuti e l’agilità di una Sutherland (e pure lei in Semiramide è dovuta scendere a patti con la parte perchè troppo grave), quindi una vocalità veramente rara se non impossibile da trovare. Penso quindi che se si vogliono eseguire certe opere come appunto Ermione o Maometto II non si possa essere così “intransigenti” nella ricerca della vocalità Colbran, in quanto a prescindere da dati tecnici è una vocalità in sè particolare se non addirittura unica (eccelse vocaliste come Joan Sutherland e Mariella Devia pur cantando benissimo, non sono certo uno specchio di ciò che si pensa fosse la voce della Colbran), ma sia necessario trovare una buona approssimazione di ciò che richiede questa vocalità (e intendiamoci non lo sono state nè la Ganassi, nè la Rebeka, nè la Peretyatko!!), credo comunque che un buon mezzosoprano (ma che di vero mezzosoprano si parli, e personalmente sulla natura di mezzo della Ganassi ho qualche riserva) in grado di svettare in acuto e in grado di affrontare agilità di forza (una prima Berganza per intenderci, nonostante il volume esiguo) per questi ruoli potrebbe andare bene, pur essendo, come dicevo prima, un’approssimazione di tale vocalità.
Ciao Orbazzano.
Ma perchè un mezzo soprano, che on può reggere certe parti prettamente sopranili e non quella voce rarissima che si definisce comunemente soprano drammatico d’agilità?
L’Armida di Maria Callas è chiara, non ti pare?
Abbiamo imparato molto dai tentativi della Horne di cantare la Colbran, e penso ad un brano per tutti, ossia il Bel Raggio….
Ne riparleremo comunque.
A presto.
Un saluto anche a Pruun.
Torneremo, come promesso a TAncredi, su questo tema dell’evoluzione del gusto….
a presto
gg e dd
Beh l’Armida della Callas per quanto bellissima, a mio modesto parere, non rispecchia nemmeno lei l’idea della vocalità Colbran. La Callas, so che ora mi prenderò gli improperi di tutto il Blog :-), era un soprano tendenzialmene leggero (e chi ha avuto la fortuna di sentirla in teatro riferisce proprio di una voce piccola anche se molto penetrante) che compensava con l’accento, trovando così la sua vera statura drammatica. Non a caso anche dagli audio di cui noi disponiamo sì avverte come nel medium fosse, rispetto ad una Cerquetti o ad una Tebaldi, una voce molto meno corposa e sontuosa, quindi non vedrei nemmeno in Maria Callas il vero soprano Colbran, resta pure lei, sempre a mio modesto parere, un’approssimazione, magari bellissima, di quell’antica vocalità.
Caro Orbazzano,
difficile inserire la voce di Maria Callas in una qualsiavoglia categoria, potremmo dire voce di soprano drammatico, ma giustamente tu ricordi che c’erano la Tebaldi e la Cerquetti, sontuosissime. La definizione di soprano leggero o lirico-leggero però è riduttiva comunque…quale soprano lirico-leggero conosci capace di cantare Abigaille, Gioconda (in Arena e in Scala!!), Isolde, Bruhnilde, Medea? Tutte parti che nella parte medio-bassa della voce hanno buona parte della loro scrittura. La voce penetrante di lirico-leggero è un pò poco per risolvere, cantare o reggere queste opere secondo me. E te lo possono confermare le persone che l’hanno ascoltata nei Vespri o in Macbeth.
Quanto all’Armida quella di Maria Callas ha accento appropriatissimo, ora da maliarda, ora languido, ora furioso, canta le agilità con una precisione, una facilità e una foga che nessun altra cantante in Rossini ha saputo eguagliare (men che meno in Armida). Per quanto mi riguarda la Callas è stato l’esempio più felice di come dovrebbe essere risolta una vocalità Colbran (anche facendo a meno di tutte le puntature acute che inseriva nei felici dì del 1952) in virtù del mezzo vocale, dell’accento, della precisione della coloratura.
Innanzitutto grazie a domenico donzelli e ad adolphe nourrit per le interessanti risposte, che pure mi vedono in accordo solo parzialmente.
I gravi della Callas erano, secondo me, piuttosto artefatti, e il repertorio affrontato non sempre è specchio della vera vocalità di chi lo esegue. Se vediamo Maria Callas come voce (e parlo di voce e non di accento e caratura drammatica) sostanzialmente lirica-leggera, non solo non è stata l’unica ad affrontare un repertorio drammatico (e penso prima di tutto a Renata Scotto, voce di soprano leggero, e in secondo luogo, prima di lei, a Magda Olivero che non si poteva certo definire una voce, per corpo e volume, drammatica), ma oltretutto ne pagò ben presto, come pure la Scotto, il fio, segno che forse Lady e Gioconda da un punto di vista strettamente vocale non erano per lei. Detto questo la sua Armida rimane certo strepitosa per accento e coloratura, ciò nonostante penso che la voce rimanga per certi aspetti ancora distante da quella del vero soprano Colbran, pur rimanendo forse il miglior compromesso per questo ruolo e per questa vocalità in età moderna.
Ma come si fa a dire che i gravi della Callas erano artefatti? E’ l’unica a scendere con un vero registro di petto, che non è semplice apertura del suono (come cartina al tornasole, per misurare i gravi di una voce di “soprano leggero”, si veda il caso della grandissima Sills, che tutto aveva, fuorchè un registro grave paragonabile a quello di Maria), sonoro e vibrante (ad esempio, si ascolti il “son sepolta” o il “di tenebra fonda” del Pirata); senza contare la brunitura del registro centrale, inimitabile… Non ho mai avuto la ventura di ascoltare la Callas in teatro, per cui non posso dire se la sua voce fosse realmente “piccola ma penetrante”. Ma, stando a quello che possediamo, emerge una voce che in nulla può essere assimilata a un soprano leggero, stando almeno a quello che oggi si intende per soprano leggero… Le incisioni della divina Maria del Bel raggio di Semiramide sono dovute sembrare, per quanto concerne lo stile e la vocalità rossiniana, delle vere e proprie chimere per l’epoca in cui sono state effettuate… Per non parlare della già giustamente celebrata Armida, che all’epoca dovette realmente apparire come un prodotto a dir poco “insolito”. Credo che la voce della Callas fosse a suo agio nelle parti Colbran soprattutto nei primi anni ’50, mentre in seguito le si addicessero di più i ruoli della Pasta o della Malibran.
Nessuno nega il sicuro effetto di questa voce, ma ribadisco secondo me il registro grave della Callas fu costruito nota per nota dalla stessa.
Per quanto riguarda lo stile della sua Armida e del suo Bel raggio lusinghier concordo pienamente nel dire che furono certamente una ventata di aria fresca che anticipò di circa 20 anni la rossini-renaissance.
Non capisco cosa intendi per “costruito”; se con tale termine vuoi dire una artefazione bella e buona, una finzione e una mistificazione, mi permetto di non essere d’accordo (di contro, era questo forse il caso della Gencer). Il registro grave della Callas è assolutamente di petto.
Se per artefatto intendi un registro impostato a regola d’arte, che impiega tutte le cavità che nella tecnica del belcanto dovevano essere umpiegate per emettere una tale voce, allora si, è un registro di petto vero e proprio. Non si ascoltano – nel canto di petto della Callas – suoni aperti e sdruciti (il caso di una Sills o di una Gencer) nè meramente nasali (il caso della Freni, ad esempio), ma note piene, vibranti, perfettamente immascherate eppure risonanti in basso, pur continuando ad essere suoni “alti”. Se ascolti le registrazioni dell’ultima Callas, quando la voce era ormai alla frutta (ad esempio Tosca del 64, ma anche Poliuto, nonostante la Callas come Paolina sia una vera e propria meraviglia), ti accorgerai come la tendenza a nasaleggiare nei gravi (e a cantare con la u tedesca nel centro) fosse una sorta di escamotage per mantenere le note gravi sempre alte; ciononostante quelle note tendevano comunque a conservare una particolare brunitura. Questa non può essere costruita ad arte, tanto più nei momenti in cui si tende a tenere, in stati di particolare difficoltà per l’emissione, la voce un po’ al di là degli zigomi.
Personalmente avverto ogni tanto nel registro grave della Callas una certa ingolatura (sentivo prima la Norma con Corelli e la Ludwig e lì la cosa è palese, anche se ovviamente non erano più gli anni d’oro del suo canto…ma lo stesso problema è ravvisabile, secondo me, anche nelle prime registrazioni). Non trovo invece nasale il registro grave della Freni, che ha sempre avuto una zona grave altissima di posizione, e pure tenendo sempre in considerazione il “naso” come punto di riferimento per mettere la voce dietro nelle fosse nasali, non ha mai emesso, come altri, suoni nasali (o almeno non me ne sono mai accorto io… ). Per quanto riguarda invece il registro grave aperto (penso per una mancanza di note che le portava ad acciuffarle per i capelli) di Sills e Gencer, soprattutto durante il secondo periodo della loro carriera, mi trovo d’accordo.
Mi scuso con i proprietari di questo blog se sono uscito dal principale argomento di discussione.
posso dire che sto riflettendo n questi giorni sulla vocalità di isabela colbran e spero di dire qualche cosa in tempo breve. l’argomento, confesso è interesante. per essere completo dovrebbe anche tenere conto delle parti scritte per la colbran prima di rossini.
Quanto alla callas ed alle note basse che hanno dato luogo a tanti, interessantissimi, interventi.
a) non credo che la callas degli inizi fosse un soprano lirico leggero. anche se il fatto che la sua maestra le avesse fatto studiare arie di soprano di colaratura può giustificare il dubbio. Anche perchè la de hidalgo, figlia della sua epoca, credeva e praticava una rigida divisione fra i vari soprani.
b) certo è che la callas non aveva l’ampiezza che le consentisse di essere un grande soprano drammatico per le opere (tardo verdi) di più frequente rappresentazione ai suoi tempi e per di più non poteva vantare il timbro bello e sontuoso di una caniglia o di una milanov.
Ma questo, ripeto, valeva per verdi o puccini non per norma o lady macbeth o la abigaille. Anche se devo precisare che nella sua miglior norma quella di Londra del novembre 1952 la callas fa fatica a reggere il fulgore della voce della stignani. e i più vedovi dei vedovi callasiani del loggione con riferimento alla norma del 1952 confermano. Ma, va detto, ebe stignani era una assoluta ed unica superdotata, credo unica nella storia del canto.
c) con riferimento a quello che poteva essere il repertorio di elezione della callas ossia rossini, bellini e donizeti ed il suo periodo aureo, che credo finisca nel 1953 ( e qui so che insorgeranno in molti, ma fra la norma londinese del 1952 e la scaligera del 1955 c’è un abisso con riferimento alla vocalista) maria callas abbia offerto una seria e credibilissima rappresentazione del soprano drammatico secondo l’estetica di un ipotetico 1830. Un solo appunto talvolta l’accento della callas anche al massimo dello splendore vocale è un poco esagerato e marcato. Sotto questo profilo, credo, che le ultime Borgia della Sutherland o una ripresa sporadica di Semiramide nel 1983 siano veramente significative.
Che il timbro della Callas non fosse “bello e sontuoso” dipende da quale parametro di gusto si adotta… La bellezza non è solo l’aulica compostezza di un Canova, ma è anche la corrusca drammaticità di un Caravaggio, o la visionaria immaginazione di un ultimo Goya. Sicuramente la Caniglia o la Stignani avranno avuto timbri più sontuosi, ma anche più ordinari, nel senso che erano ben inseriti nel solco di una tradizione timbrica consolidata. Che la Stignani fosse vocalmente grandissima nella Norma di Londra nessuno lo mette in dubbio; ma è pur vero che all’epoca era ultracinquantenne, per cui di tanto in tanto si ascoltano suoni un tantino nasali e duri. Ciò non sarebbe assolutamente nulla, se ci fosse un accento solo lontanamente paragonabile a quello della Callas; ma questo non c’è… Ergo da un lato abbiamo una voce che, nonostante alcune falle vocali che indubbiamente ci sono (già nel 52: i centri alquanto belanti!!), immette in una musica come quella di Bellini un accento ora rovente, ora elegiaco, ora disperato, ora estasiato, tanto da piegare talune occasionali durezze in vera e propria spinta interpretativa, SEMPRE e COMUNQUE perfettamente aderente al momento scenico (dire che la Callas fosse talvolta fuori le righe mi sembra un’enormità… In realtà si potrebbe dire che sono i sentimenti che l’opera esprime che sono spesso fuori le righe; mi sa che ogni tanto la compostezza elegante sia quasi un alibi per chi, in realtà, non riesce ad essere comunicativo… Perchè qui non si parla di interpretazione, ma di comunicativa, che è una cosa diversa dalla precedente, sebbene ad essa connessa!). Dall’altro lato, abbiamo una splendida voce, che incede marmorea e neoclassica nella sua perfezione formale… Peccato, però, che Bellini non è Gluck, per cui non si può fare a meno di rilevare una certa piattezza di fondo dell’accento (e per questo, talune durezze vocali emergono con ancora maggiore evidenza). Nemmeno calzante mi sembra il confronto con la Semiramide dell’83 della Sutherland, o con la sua Lucrezia Borgia insieme a Kraus: la Sutherland tutto è stata, tranne che una grande FRASEGGIATRICE… E’ sempre vocalmente superba, sempre aderente al momento scenico, interpretativamente notevole; ma nel belcanto, oltre al fatto che il fraseggio deve essere un tutt’uno con la linea di canto (in questo la Sutherland eccelle), deve emergere anche un certo lavoro interpretativo sul testo (cosa che viene messa meno in rilievo anche dai cosiddetti specialisti del belcanto!!!), per cui le consonanti devono assolutamente vibrare per dare ulteriore corpo alla frase musicale; e chi ha dizione arruffatta, inevitabilmente si trova ad avere non poche limitazioni in questo senso (insomma il di tenebRa Fonda, oppure il Fin pei neMici Loro, sono frasi che traggono tutta la loro potenza drammatica dall’accento che l’interprete immette sulle consanti centrali, proprio perchè è la lingua italiana che è fatta in questo modo… La Callas in questo era maestra, la Sutherland un po’ meno… E’ sotto un profilo strettamente vocale che un confronto non si può fare; la Sutherland per saldezza di emissione, potenza del registro acuto e medio, coloratura e dinamiche è inarrivabile!!!). Non sono neanche d’accordo sul fatto che le cose migliori della Callas non vadano oltre il ’53; per un’interprete dove la saldezza di emissione non rappresenta un fine in sè concluso, ma un mezzo per esprimere un particolare momento scenico, non si può fare a meno di rilevare come con un certo accentuarsi delle difficoltà dell’emissione, da cui difficoltà nel saldare i vari registri, oscillazioni nel registro acuto, l’interprete accentuasse il lato fragile dei suoi personaggi, piegando l’interpretazione verso un più accentuato chiaroscuro (esemplare è la splendida Bolena del 57, una delle esecuzioni che rimarrà nella storia dell’interpretazione lirica di tutti i tempi; fragilità vocali non sono altro che manifestazione di una fragilità emotiva che sfocia nella lancinante Al dolce guidami… Un esempio straordinario di perfetta fusione tra linea di canto e intenzione interpretativa, in una completa aderenza agli stilemi interpretativi del bal canto). Non si può valutare un’artista come la Callas solo sul mero dato vocale e tecnico, proprio perchè il suo canto è tutto teso a dimostrare che l’opera è teatro, per cui la voce non è un elemento fine a se stesso, ma un MEZZO per esprimere momenti drammatici e scenici; la Callas – qualunque cosa abbia fatto – ha cercato sempre di mettere in pratica questo assunto, ed è su questo piano che va valutata la sua grandezza. E’ riuscita negli intenti? Fin quando la voce glielo ha permesso, ovvero fin quando la tecnica e il mezzo vocale hanno reso possibile il lavoro dell’interprete, mi sembra che – nella maggior parte dei casi – le interpretazioni della Callas sono sempre INTERPRETAZIONI, per cui forniscono una lettura di un personaggio, che è fin lì è solo racchiuso in uno spartito, fino a farlo diventare vera e propria VITA DRAMMATICA. E non c’è nessuna esagerazione o esagitazione: in tal caso un confronto istruttivo (per seguire Donzelli nei suoi confronti “veramente significativi”) può essere fatto con la Norma della Cigna e della Milanov (credo che se bisogna fare un confronto tra la Callas e qualcun’altra, questo va fatto con chi l’ha preceduta, dato che chi l’ha seguita – Sutherland, Gencer, ecc. – ha ripreso un percorso iniziato con lei, con l’intento di perfezionarlo e portarlo a compimento): come è noto le due grandi cantatrici, tutto erano fuorchè delle belcantiste… Ergo troviamo colorature abbastanza pasticciate (l’Ah! Bello a me ritorna della Cigna è imbarazzante; idem il Non trenare della Milanov, nonostante gli enormi acuti…), alle quali si cerca di rimediare caricando l’accento alcune volte in maniera eccessiva… Era il gusto dell’epoca, certo! Ma anche per questo emerge ancora di più l’assoluta innovazione apportata dalla Callas: la sua coloratura, precisissima, rende giustizia a un brano come Oh! Non tremare DALL’INTERNO, per cui le quartine di sedicesimi diventano espressione di uno stato d’animo febbrile, acceso di ira “funesta”, che si esprime attraverso la musica (e solo attraverso quella) e che automaticamente COMUNICA allo spettatore quel preciso stato drammatico… Di fronte a ciò anche la percettibile oscillazione del do non fa altro che immettersi in questo quadro…