L’entusiasmo testimoniato da Stendhal nei confronti del Sigillara (questo il titolo non ufficiale con cui l’opera era conosciuta e amata in tutto il Lombardo-Veneto) trova certo un gran perché nella bellezza dell’opera. Scritta su un libretto una volta tanto davvero magnifico (di Luigi Romanelli), vivacissima, a tratti frenetica, fresca e tenera nei momenti sentimentali, graffiante nella critica di costumi che vanno ben al di là dell’epoca raffigurata (dalle ridicolaggini delle arrampicatrici sociali all’idiozia dei giornalisti prezzolati), La Pietra presenta indubbie difficoltà di esecuzione, visto che prevede cinque prime parti (un contralto, un tenore, un basso “nobile” e due buffi) e due parti di seconda donna cui si richiede di cantare, in assieme, per buona metà dell’opera (una delle due, inoltre, ha la sua brava aria del sorbetto). E a concertare il tutto è indispensabile un direttore attento alle ragioni dei cantanti non meno che a quelle della partitura.
A Bologna, nella primavera del 1986, la bacchetta di Tiziano Severini non sembrò la più adeguata né all’una né all’altra bisogna. Basti sentire le frequenti sbavature di un’orchestra di solito valente come quella del Comunale. Per fortuna il palcoscenico parlava tutt’altro linguaggio, a partire dalla protagonista, che regala alla marchesa Clarice quel brio e quell’eleganza che solo il canto all’italiana, morbido rotondo e sul fiato, può conferire. Attorno a lei due eccellenti declamatori (a dimostrazione del fatto che declamatore e urlatore non sono sinonimi), esperti del sillabato e scenicamente irresistibili, e un tenore contraltino che, nelle parti di mezzo carattere, ha avuto e seguita ad avere ben pochi termini di paragone. Non solo e non tanto per la prodigiosa estensione in acuto, quanto per la perfetta proiezione e dominio tecnico di una voce in natura davvero modesta. Il basso, sebbene suoni a più riprese come un tenore accorciato, sfoggia proprietà di accento e fraseggio e, confrontato con quello che abbiamo sentito in anni recenti, sembra Samuel Ramey. Ma più della somma dei singoli elementi è l’insieme a convincere: libera da assurdi timori “filologici”, e al tempo stesso inderogabilmente fedele a quell’eleganza aristocratica che è la cifra caratteristica del Pesarese, questa esecuzione è (salvo che… nella bacchetta!) un compendio della Rossini-Renaissance applicata al repertorio buffo e una terribile “pietra di paragone” per tutte le esecuzioni successive, anche per quelle benedette da autorevoli pulpiti.
Rossini – La Pietra del Paragone
Atto I
Mille vati al suolo io stendo – Enzo Dara & William Matteuzzi
Quel dirmi, oh Dio! non t’amo – Martine Dupuy & Simone Alaimo
Ombretta sdegnosa del Missipipì – Alessandro Corbelli
Chi è colei che si avvicina? – Enzo Dara
Su queste piante incisi – Martine Dupuy, Anna Caterina Antonacci, Gloria Banditelli, Simone Alaimo, Alessandro Corbelli, Enzo Dara, William Matteuzzi & Tito Tortura
Atto II
Quell’alme pupille – William Matteuzzi
Prima fra voi coll’armi – Simone Alaimo, Enzo Dara & William Matteuzzi
Se per voi le care io torno – Martine Dupuy
Ah! se destarti in seno – Simone Alaimo
Bellissima scelta.Io quella volta c´ero,e posso confermare che,vocalmente,é stata una delle piú belle recite rossiniane a cui abbia assistito.Ma poi,rispetto alle bacchette odierne,neanche Severini se la cava poi tanto male.Anche la regia del compianto Virginio Puecher era eccellente.Sull´opera,posso solo dire che io la considero un capolavoro pari al Barbiere e all´Italiana.Considerazione finale:in quella stagione 1986,a Bologna si poteva assistere anche ai Vespri Siciliani diretti da Chailly con Susan Dunn,Luchetti,Nucci e Giaiotti,e ai Puritani con la Devia e la direzione di Campanella.Altri tempi…