L’estate è da più di un secolo la stagione dei festivals.
I festival nacquero con la nobile ed encomiabile idea di consentire ad autori reietti in altri teatri l’esatta rappresentazione delle loro opere o per consentire la nuova e corretta circolazione ad altri adulterati, maltrattati e malmenati nelle allora coerenti ed invernali stagioni.
Sono questi, dicevo, nobili ed alti intenti. Rimangono, però, intenti perché quel che conta è la realizzazione pratica degli stessi ed il rispetto dell’arte e l’evitare di trasformare, snaturandolo, l’evento artistico in evento mondano e commerciale.
I primi a partire furono Oltralpe. Anzi nel caso del “consentire ad autori reietti in altri teatri l’esatta rappresentazione” vi provvide il reietto autore medesimo. Wagner, erigendo a sé ed alla sua produzione musicale Bayreuth. Come tutti i manager Wagner non tenne conto che sempre le aziende cadono in successione e spesso gli eredi sono cagione di disastri e dissesti. Spesso irreparabili. Non mi addentrerò nelle vicende ereditarie, ma è chiaro che sin dall’avvento di Cosima Liszt vedova Wagner le cose (ossia gli intendimento artistici) presero una piega non preventivata dal Maestro. Dalle scelte della vedova più allora che oggi (viste le condizioni obitoriali del canto wagneriano e soprattutto della tradizione direttoriale) due separate scuole di esecuzione fra loro non certo in antitesi hegeliana, ma i guerra aperta, l’una transfuga negli altri teatri germanici ed anglossassoni soprattutto, l’altra di stretta osservanza e assolutamente improponibile altrove.
L’episodio di Cosima Wagner ed Ernestine Schumann_Heink che vennero, in pratica, alle mani è significativo più di ogni parola. Inutile dire che con il nostro paradigma di esecuzione stiamo dalla parte di Frau Ernestine, con cui studiò Tristano persino Lauritz Melchior. Il Tristano per antonomasia, che le odierne Cosime bollano come negazione di canto ed interpretazione wagneriana. Noi ignoranti e passatisti, invece, lo consideriamo modello insuperato, confortati in questa opinione dai più eminenti direttori d’orchestra, che se lo contendevano per tutte le parti di tenore wagneriano.
Quanto al secondo intento “consentire nuove e corretta circolazione a musicisti maltrattati, adulterati” fu il criterio ispiratore di Salisburgo. Non dimentichiamo che all’epoca di fondazione del festival di Mozart circolavano in pratica Flauto magico e Don Giovanni. Va anche detto che altre e non tedescofone istituzioni furono quelle che permisero una più massiccia e persuasiva diffusione dell’autore salisburghese. Alludo al festival di Glyndebourne.
Quello che è divenuto il festival di Salisbugo dagli anni 1960 in poi è sotto gli occhi di tutti e, quel che è peggio, nelle orecchie di tutti. Una cosa è certa che se ai primi del ‘900 la crociata volta a riportare Mozart in stabile repertorio aveva alti fini (!), oggi gli stessi li avrebbe quella per allontanare o ridurre drasticamente le rappresentazioni dei titoli del genio salisburghese. Ma ormai l’azienda Salisburgo è in produzione sia pur con qualche ausilio della cassa integrazione e deve andare avanti a produrre.
Certo è che comparando un don Giovanni in lingua tedesca del 1936 con un cast capitanato da Maria Reining ed Julius Patzak e molte delle attuali esecuzioni nello spirito festivaliero sorge qualche pesante dubbio sulla tenuta nel tempo degli ideali festivalieri.
Dicevo di due scopi condivisibili. E credo siano gli unici coerenti e spendibili per pensare, organizzare ed allestire un festival nel tempo con il corollario –obbligatorio- di esecuzioni vocali e strumentali di qualità.
Queste esigenze, venendo a casa nostra, mettono in dubbio che abbiamo necessità stringenti e credibili di manifestazioni festivaliere dedicate ad autori come Verdi e Puccini, il cui catalogo, fra l’altro, non è sterminato, atteso che i due autori stanno, al pari di Mozart, in dosi massicce nei teatri di tutto il mondo.
Quanto, poi, a Puccini mi domando l’utilità se non puramente accademica (o peggio l’interesse economico) di riproporre pagine come quelle di Edgar che finirono non tagliate, ma rottamate dallo stesso autore o inventarsi le versioni di Butterfly (manco fosse Macbeth o Don Carlos) quando è chiaro per prossimità dei fatti e la loro documentazione che l’opera è, sia pur uscita a puntate dallo studio di Puccini, quella che da sempre circola a stampa ed è proposta nei teatri.
Anche perchè la prassi teatrale ed esecutiva di Butterfly, piuttosto che di Tosca non è certo quella di Semiramide o Tancredi. Titoli questi che riportano alla mente quello che sembra essere la “collina” attuale dell’industria festivaliera italiana. L’intento che fondò il ROF era inoppugnabile: restituire rappresentazioni teatrali di un autore tanto divinizzato in vita quanto perso nella realtà esecutiva.
Idea, ripeto, condivisibile e resa ancor più intrigante dal corollario di restituire anche una prassi esecutiva fatta di interventi di testo e soprattutto di compresenza di svariate versioni.
Però Rossini è l’autore che più di ogni altro richiede in termini di esecuzione. Allora sia chiaro che nella terra promessa di Rossini dei rossinisti e dei rossiniani non abbiamo mai sentito una grande direzione rossiniana. Preciso che ritengo che modello della direzione rossiniana, rimanga quella di Schippers nell’Assedio scaligero.
Quanto ai cantanti è documentale che i maggiori e storici siano stati pochi come pochi furono all’epoca della composizione di quelle opere, hanno patito tutti di sottoccupazione.
Il festival, allora, ovvero quando disponeva di forze vocali di levatura storica non ha mai ragionato come ragionava Rossini, ossia offrendo a quegli elementi straordinari e realmente rossiniani l’opportunità di titoli o di versioni, magari differenti da quelli della prima versione (ma approvati da autore e tradizione coeva), comportamento e scelta che con riferimento a Rossini è un errore, prima che musicale, di filologia. Di quella filologia di cui tanto il Rof si fa merito e vanto. Tanto fatuo da meritare nella mente e nei sogni di chi scrive un vero e proprio contro festival.
I festival nacquero con la nobile ed encomiabile idea di consentire ad autori reietti in altri teatri l’esatta rappresentazione delle loro opere o per consentire la nuova e corretta circolazione ad altri adulterati, maltrattati e malmenati nelle allora coerenti ed invernali stagioni.
Sono questi, dicevo, nobili ed alti intenti. Rimangono, però, intenti perché quel che conta è la realizzazione pratica degli stessi ed il rispetto dell’arte e l’evitare di trasformare, snaturandolo, l’evento artistico in evento mondano e commerciale.
I primi a partire furono Oltralpe. Anzi nel caso del “consentire ad autori reietti in altri teatri l’esatta rappresentazione” vi provvide il reietto autore medesimo. Wagner, erigendo a sé ed alla sua produzione musicale Bayreuth. Come tutti i manager Wagner non tenne conto che sempre le aziende cadono in successione e spesso gli eredi sono cagione di disastri e dissesti. Spesso irreparabili. Non mi addentrerò nelle vicende ereditarie, ma è chiaro che sin dall’avvento di Cosima Liszt vedova Wagner le cose (ossia gli intendimento artistici) presero una piega non preventivata dal Maestro. Dalle scelte della vedova più allora che oggi (viste le condizioni obitoriali del canto wagneriano e soprattutto della tradizione direttoriale) due separate scuole di esecuzione fra loro non certo in antitesi hegeliana, ma i guerra aperta, l’una transfuga negli altri teatri germanici ed anglossassoni soprattutto, l’altra di stretta osservanza e assolutamente improponibile altrove.
L’episodio di Cosima Wagner ed Ernestine Schumann_Heink che vennero, in pratica, alle mani è significativo più di ogni parola. Inutile dire che con il nostro paradigma di esecuzione stiamo dalla parte di Frau Ernestine, con cui studiò Tristano persino Lauritz Melchior. Il Tristano per antonomasia, che le odierne Cosime bollano come negazione di canto ed interpretazione wagneriana. Noi ignoranti e passatisti, invece, lo consideriamo modello insuperato, confortati in questa opinione dai più eminenti direttori d’orchestra, che se lo contendevano per tutte le parti di tenore wagneriano.
Quanto al secondo intento “consentire nuove e corretta circolazione a musicisti maltrattati, adulterati” fu il criterio ispiratore di Salisburgo. Non dimentichiamo che all’epoca di fondazione del festival di Mozart circolavano in pratica Flauto magico e Don Giovanni. Va anche detto che altre e non tedescofone istituzioni furono quelle che permisero una più massiccia e persuasiva diffusione dell’autore salisburghese. Alludo al festival di Glyndebourne.
Quello che è divenuto il festival di Salisbugo dagli anni 1960 in poi è sotto gli occhi di tutti e, quel che è peggio, nelle orecchie di tutti. Una cosa è certa che se ai primi del ‘900 la crociata volta a riportare Mozart in stabile repertorio aveva alti fini (!), oggi gli stessi li avrebbe quella per allontanare o ridurre drasticamente le rappresentazioni dei titoli del genio salisburghese. Ma ormai l’azienda Salisburgo è in produzione sia pur con qualche ausilio della cassa integrazione e deve andare avanti a produrre.
Certo è che comparando un don Giovanni in lingua tedesca del 1936 con un cast capitanato da Maria Reining ed Julius Patzak e molte delle attuali esecuzioni nello spirito festivaliero sorge qualche pesante dubbio sulla tenuta nel tempo degli ideali festivalieri.
Dicevo di due scopi condivisibili. E credo siano gli unici coerenti e spendibili per pensare, organizzare ed allestire un festival nel tempo con il corollario –obbligatorio- di esecuzioni vocali e strumentali di qualità.
Queste esigenze, venendo a casa nostra, mettono in dubbio che abbiamo necessità stringenti e credibili di manifestazioni festivaliere dedicate ad autori come Verdi e Puccini, il cui catalogo, fra l’altro, non è sterminato, atteso che i due autori stanno, al pari di Mozart, in dosi massicce nei teatri di tutto il mondo.
Quanto, poi, a Puccini mi domando l’utilità se non puramente accademica (o peggio l’interesse economico) di riproporre pagine come quelle di Edgar che finirono non tagliate, ma rottamate dallo stesso autore o inventarsi le versioni di Butterfly (manco fosse Macbeth o Don Carlos) quando è chiaro per prossimità dei fatti e la loro documentazione che l’opera è, sia pur uscita a puntate dallo studio di Puccini, quella che da sempre circola a stampa ed è proposta nei teatri.
Anche perchè la prassi teatrale ed esecutiva di Butterfly, piuttosto che di Tosca non è certo quella di Semiramide o Tancredi. Titoli questi che riportano alla mente quello che sembra essere la “collina” attuale dell’industria festivaliera italiana. L’intento che fondò il ROF era inoppugnabile: restituire rappresentazioni teatrali di un autore tanto divinizzato in vita quanto perso nella realtà esecutiva.
Idea, ripeto, condivisibile e resa ancor più intrigante dal corollario di restituire anche una prassi esecutiva fatta di interventi di testo e soprattutto di compresenza di svariate versioni.
Però Rossini è l’autore che più di ogni altro richiede in termini di esecuzione. Allora sia chiaro che nella terra promessa di Rossini dei rossinisti e dei rossiniani non abbiamo mai sentito una grande direzione rossiniana. Preciso che ritengo che modello della direzione rossiniana, rimanga quella di Schippers nell’Assedio scaligero.
Quanto ai cantanti è documentale che i maggiori e storici siano stati pochi come pochi furono all’epoca della composizione di quelle opere, hanno patito tutti di sottoccupazione.
Il festival, allora, ovvero quando disponeva di forze vocali di levatura storica non ha mai ragionato come ragionava Rossini, ossia offrendo a quegli elementi straordinari e realmente rossiniani l’opportunità di titoli o di versioni, magari differenti da quelli della prima versione (ma approvati da autore e tradizione coeva), comportamento e scelta che con riferimento a Rossini è un errore, prima che musicale, di filologia. Di quella filologia di cui tanto il Rof si fa merito e vanto. Tanto fatuo da meritare nella mente e nei sogni di chi scrive un vero e proprio contro festival.
Mozart – Don Giovanni
Atto I: Don Ottavio, son morta!…Or sai chi l’onore – Maria Reining (con Julius Patzak)
La modestia di questi “blasonati” festival è cosa ormai conclamata. Lasciando da parte Bayreuth, che, visto il costante decadimento artistico (musicale, canoro, registico), sarebbe come sparare sulla Croce Rossa, e il ROF che sta “raggiungendo” a passi da gigante Torre del Lago et similia, vorrei soffermarmi su Salisburgo. Il festival dedicato al sommo Mozart è la dimostrazione di come queste manifestazioni non solo siano inutili e superflue, ma financo dannose. Ormai Salisburgo è la meta prediletta dello star system di marca DGG, ed è vetrina di frustrazioni registiche da avanguardia mancata e fuori tempo massimo. Starlettes e veline della lirica si danno appuntamento nella città austriaca solo per ingrassare le casse degli organizzatori (e di tutto il settore terziario che vi sta attorno) e i propri stratosferici cachet. Il livello però è più che scarso. Esempio ad imperitura memoria di detto sfascio è l’edizione del 2006, dedicata ai 250 di Mozart: per l’occasione (immancabilmente sprecata) tutto il catalogo teatrale è stato rappresentato, e gli spettacoli sono stati immortalati su DVD. Invito tutti a visionare alcuni stralci di queste produzioni (ribattezzate in gergo degno di MTV, M22…), c’è tutto il peggio che ci si può aspettare: dai cast alle regie, dai direttori alle messe in scene. La cosa che stupisce è che qualcuno ha sentito il “bisogno” di tramandare ai posteri questi orrori…
come hai ragione…e quest anno il festival si salisburgo ha dato il meglio di sè un con romeo dai suoni chiari aperti e fissi e una juliette che mi fa rimpiangere la roberta peters e le sue colorature fuori regola ma divertentissime ed eseguite impeccabilmente..e senza un suono acidoo! speriamo non esca in dvd..