Ho assistito ieri sera ad una replica della Bohème scaligera, in un teatro assiepato prevalentemente da turisti, come è ormai la regola per un teatro che è riuscito nella straordinaria impresa di allontanare il suo antico ed attaccatissimo pubblico milanese.
Un successo pieno se misurato con l’applausometro, ma di ben altra misura sul piano dell’arte, artefici una compagnia di canto di livello medio basso ed una bacchetta giovane, piena di idee ma anche evidentemente inesperta nella gestione del canto e dello spettacolo in generale. Il risultato è stata una serata dal clima alterno e variabile, con tante buone cose ma in generale piuttosto fiacca e noiosa, che non ha certo soddisfatto i pochi loggionisti superstiti. Ma andiamo con ordine.
Diciamo subito che del glorioso allestimento di Zeffirelli, ancor oggi efficace e giusto, è mancata la regia. Svarioni e rivisitazioni sparse hanno tolto, in generale, passionalità e personalità ai personaggi, a volte messi lì a recitare qualcosa di diverso ed avulso dal libretto ( alludo ad esempio a momenti come quello dell’atto IV, ove all’arrivo trafelato di Musetta che introduce Mimì moribonda, il buon Rodolfo non le si lancia in soccorso per le scale ma la attende insulsamente al centro della scena stringendosi ridicolmente nelle spalle; oppure, dopo l’annuncio della morte di Mimì, Rodolfo canta straziato il suo nome rimanendo lontano dal letto senza correre al capezzale…come da buon senso; un duetto atto terzo dove i due protagonisti stavano in scena con chiara estraneità l’uno all’altra.. ). Ciò non ha collaborato certo all’esito di una serata che, ad onta di molte buone idee della bacchetta e di una evidente disponibilità degli interpreti nel realizzarle ( e ciò nonostante i loro oggettivi limiti vocali ), di fatto non è mai decollata, rimanendo “ in potenza ”, cioè…velleitaria.
Gustavo Dudamel, dotato e simpatico …Mago G della bacchetta, è senz’altro un ragazzo sensibile agli aspetti più poetici, lirici ed intimisti degli spartiti che dirige. Ha isolato la coppia Rodolfo Mimì rispetto al resto del cast, chiedendo loro di cantare spessissimo sfumato, piano e pianissimo ( si cercava il cosiddetto fior di labbra…), smorzando e attaccando piano i suoni, in modo da non perdere una sillaba della poesia, dell’amore travolgente e purissimo dei due protagonisti. Il tutto con tempi lenti, talora lentissimi, con gli strumenti solisti spesso in tutta evidenza e ben “sgranati”, se mi si consente l’espressione impropria, alla ricerca di un clima di passione tenerissima ed estatica. Cosa non nuova per Dudamel, che già aveva abbondantemente sperimentato la formula nel Don Giovanni ultimo scorso, in particolare con il personaggio di Don Ottavio. Peccato che gli interpreti non siano stati, come è norma oggi, tecnicamente in grado di realizzare effetti che più che ad Alexia Voulgaridou e a James Valenti si sarebbero adattati ad una Caballè, forse alla prima Freni, a Tito Schipa o Beniamino Gigli ( nemmeno a Pavarotti..). Il soprano in particolare, voce lirico leggero, decisamente più leggero che lirico ad onta del repertorio praticato non so come, è stata da subito in debito di fiato, sempre avanti alla buca nella prima aria, dove alcune frasi le si sono anche rotte prima della fine; poi decisamente e chiaramente avanti “ a tirare” la buca al terzo atto, allorquando questa ha anche esagerato nel volume di suono, insolitamente ed inutilmente forte, sia per il momento musicale in sé che per la cantante. La vocina piccola di questo soprano, un po’ querula e scoperta nei centri, piuttosto stimbrata in alto, avrebbe meritato una maggiore velocità di tempi che, forse sacrificando qualcosa all’espressione, avrebbe tolto a questa Mimì il sapore della…. buona comprimaria. Quanto a Valenti, decisamente emozionato alla grande aria, con la voce poco appoggiata e tremante per la tensione, si è sforzato di cantare lirico, di smorzare ora bene ma qualche volta con la voce davvero indietro. Con lui le cose sono andate un po’ meglio: mi è parso il migliore del cast per compostezza, musicalità e gusto. La voce, né bella né brutta, ha il sapore della scuola postcorelliana americana, dei tenori alla Shicoff per intenderci, con un colore forzatamente scuro al centro e gli acuti troppo chiari per sembrare omogenei con i centri. La ricerca del suono largo e virile toglie alla voce la dovuta proiezione nella sala, rimanendo là sul palco e con la tendenza a risolvere il canto in alto mediante portamenti…postcorelleschi appunto. Ma i grandi modelli americani, e non parlo solo di Corelli ma anche dei Tucker, la voce la mettevano da un’altra parte, assai più alta e immascherata, e con bel altra proiezione. Valenti però è garbato, bello da vedere ( un po’ Big Jim o Ridge di Beautiful più che un tenore ), espressivo per quanto i suoi mezzi gli consentano, e dunque ha una sua efficacia. Ha cantato decisamente meglio, con la gola più libera, il terzo atto, anche se da qui ad impressionare ce ne corre.
Al di fuori del microcosmo Mimì – Rodolfo tutto è parso più normale, meno ricercato e davvero alterno. Nulla di speciale Dudamel pare aver chiesto o ottenuto dagli altri interpreti, e forse anche da se stesso. E questo è stato il vero punto debole della serata. Al buon primo atto, vivace e dinamico, non è seguito nulla di altrettanto buono. Timidissimo il secondo, con una chiusa concertata con l’orchestra priva di volume e di carattere ( forse paura per lo svarione dell’altra sera ); un mediocre e noioso preludio al terzo atto, men che scolastico, cui ha reagito esagerando insensatamente l’orchestra sotto al Donde lieta uscì del soprano, come vi ho detto; un quarto atto fiacco e banale, tanto che avevamo davvero voglia di andare via prima. Non paragoniamo certo questa direzione allo scandalo della Traviata e della Stuarda né per la concertazione, né per le idee, né per gli esiti, voglio sottolinearlo. Però a questa giovane bacchetta mancano un po’ il senso della serata, ossia la capacità di reagire quando questa si infiacchisce progressivamente; il senso del canto, perché se i cantanti non hanno i mezzi per realizzare le idee è inutile e sterile, oltre che dannoso per lo spettacolo, continuare ad ignorarli lasciandoli fuori tempo a lunguire da soli o a chiedere loro prodezze vocali al di sopra delle loro possibilità. Meno autocompiacimento per le proprie convinzioni musicali, soprattutto se il tempo largo, virtuosismo direttoriale di cui oggi và di moda compiacersi, non è sostenuto da effettiva abilità, mestiere e sapienza, tanto da non addormentare un’opera da sempre coinvolgente, immediata, passionale e diretta.
La signora Ainhoa Arteta, Musetta, ha ottenuto un piccolo successo personale alle singole, a riprova che cantare forte, anche al di là del necessario, paga sempre, soprattutto con un pubblico neofita e distratto. Voce di soprano leggero, figlia della tradizione spagnola delle voci “puntute e proiettate”, la Arteta ci ha dispensato il leggendario valzer del secondo atto cantando sempre forte, con i centri scoperti e spingendo decisamente la voce, tanto da risultare frequentemente crescente di intonazione. Gli acuti, naturalmente, piccoli e striduli, perché tutto quel che precede è gonfiato a dismisura. E’ riuscita a sembrare la voce più grande, cantando senza infamia e senza lode, e soprattutto con poco fascino la sua scena. Complice il vuoto orchestrale del finale secondo, è stata nettamente sopra coro e cantanti. Peccato che mancasse un pizzico di ….eleganza.
Spagnoli, voce priva di armonici ma decisamente sonora, è stato un Marcello in linea con il resto: funziona il personaggio, anche perché è un cantante di mestiere e la parte non richiede molto; però si gradirebbe un canto morbido in frasi come quelle del duettino Oh Mimì tu più non torni con Rodolfo. Anche lui, come la sua collega, tende a cantare forte ma poc’altro. Normalissimo lo Schaunard di Natale De Carolis, un po’ usurato vocalmente, e tristissimo,invece, il Colline di Giovan Battista Parodi, vocalmente ottuagenario, per giunta accompagnato pesantemente e fiaccamente da Dudamel.
Bel successo per tutti alla fine, in particolare per il dorettore, ma…….pura ruotine, di quella che si sentiva in seconda provincia sino a venti anni fa.
Vedremo se nei prossimi giorni ci riuscirà di aggiornarvi sul primo cast, Vassilva Sartori, mentre certamente parleremo del volantinaggio pro Muti-Abbado che, come ben sapete, è avvenuto la sera della prima recita.
Un successo pieno se misurato con l’applausometro, ma di ben altra misura sul piano dell’arte, artefici una compagnia di canto di livello medio basso ed una bacchetta giovane, piena di idee ma anche evidentemente inesperta nella gestione del canto e dello spettacolo in generale. Il risultato è stata una serata dal clima alterno e variabile, con tante buone cose ma in generale piuttosto fiacca e noiosa, che non ha certo soddisfatto i pochi loggionisti superstiti. Ma andiamo con ordine.
Diciamo subito che del glorioso allestimento di Zeffirelli, ancor oggi efficace e giusto, è mancata la regia. Svarioni e rivisitazioni sparse hanno tolto, in generale, passionalità e personalità ai personaggi, a volte messi lì a recitare qualcosa di diverso ed avulso dal libretto ( alludo ad esempio a momenti come quello dell’atto IV, ove all’arrivo trafelato di Musetta che introduce Mimì moribonda, il buon Rodolfo non le si lancia in soccorso per le scale ma la attende insulsamente al centro della scena stringendosi ridicolmente nelle spalle; oppure, dopo l’annuncio della morte di Mimì, Rodolfo canta straziato il suo nome rimanendo lontano dal letto senza correre al capezzale…come da buon senso; un duetto atto terzo dove i due protagonisti stavano in scena con chiara estraneità l’uno all’altra.. ). Ciò non ha collaborato certo all’esito di una serata che, ad onta di molte buone idee della bacchetta e di una evidente disponibilità degli interpreti nel realizzarle ( e ciò nonostante i loro oggettivi limiti vocali ), di fatto non è mai decollata, rimanendo “ in potenza ”, cioè…velleitaria.
Gustavo Dudamel, dotato e simpatico …Mago G della bacchetta, è senz’altro un ragazzo sensibile agli aspetti più poetici, lirici ed intimisti degli spartiti che dirige. Ha isolato la coppia Rodolfo Mimì rispetto al resto del cast, chiedendo loro di cantare spessissimo sfumato, piano e pianissimo ( si cercava il cosiddetto fior di labbra…), smorzando e attaccando piano i suoni, in modo da non perdere una sillaba della poesia, dell’amore travolgente e purissimo dei due protagonisti. Il tutto con tempi lenti, talora lentissimi, con gli strumenti solisti spesso in tutta evidenza e ben “sgranati”, se mi si consente l’espressione impropria, alla ricerca di un clima di passione tenerissima ed estatica. Cosa non nuova per Dudamel, che già aveva abbondantemente sperimentato la formula nel Don Giovanni ultimo scorso, in particolare con il personaggio di Don Ottavio. Peccato che gli interpreti non siano stati, come è norma oggi, tecnicamente in grado di realizzare effetti che più che ad Alexia Voulgaridou e a James Valenti si sarebbero adattati ad una Caballè, forse alla prima Freni, a Tito Schipa o Beniamino Gigli ( nemmeno a Pavarotti..). Il soprano in particolare, voce lirico leggero, decisamente più leggero che lirico ad onta del repertorio praticato non so come, è stata da subito in debito di fiato, sempre avanti alla buca nella prima aria, dove alcune frasi le si sono anche rotte prima della fine; poi decisamente e chiaramente avanti “ a tirare” la buca al terzo atto, allorquando questa ha anche esagerato nel volume di suono, insolitamente ed inutilmente forte, sia per il momento musicale in sé che per la cantante. La vocina piccola di questo soprano, un po’ querula e scoperta nei centri, piuttosto stimbrata in alto, avrebbe meritato una maggiore velocità di tempi che, forse sacrificando qualcosa all’espressione, avrebbe tolto a questa Mimì il sapore della…. buona comprimaria. Quanto a Valenti, decisamente emozionato alla grande aria, con la voce poco appoggiata e tremante per la tensione, si è sforzato di cantare lirico, di smorzare ora bene ma qualche volta con la voce davvero indietro. Con lui le cose sono andate un po’ meglio: mi è parso il migliore del cast per compostezza, musicalità e gusto. La voce, né bella né brutta, ha il sapore della scuola postcorelliana americana, dei tenori alla Shicoff per intenderci, con un colore forzatamente scuro al centro e gli acuti troppo chiari per sembrare omogenei con i centri. La ricerca del suono largo e virile toglie alla voce la dovuta proiezione nella sala, rimanendo là sul palco e con la tendenza a risolvere il canto in alto mediante portamenti…postcorelleschi appunto. Ma i grandi modelli americani, e non parlo solo di Corelli ma anche dei Tucker, la voce la mettevano da un’altra parte, assai più alta e immascherata, e con bel altra proiezione. Valenti però è garbato, bello da vedere ( un po’ Big Jim o Ridge di Beautiful più che un tenore ), espressivo per quanto i suoi mezzi gli consentano, e dunque ha una sua efficacia. Ha cantato decisamente meglio, con la gola più libera, il terzo atto, anche se da qui ad impressionare ce ne corre.
Al di fuori del microcosmo Mimì – Rodolfo tutto è parso più normale, meno ricercato e davvero alterno. Nulla di speciale Dudamel pare aver chiesto o ottenuto dagli altri interpreti, e forse anche da se stesso. E questo è stato il vero punto debole della serata. Al buon primo atto, vivace e dinamico, non è seguito nulla di altrettanto buono. Timidissimo il secondo, con una chiusa concertata con l’orchestra priva di volume e di carattere ( forse paura per lo svarione dell’altra sera ); un mediocre e noioso preludio al terzo atto, men che scolastico, cui ha reagito esagerando insensatamente l’orchestra sotto al Donde lieta uscì del soprano, come vi ho detto; un quarto atto fiacco e banale, tanto che avevamo davvero voglia di andare via prima. Non paragoniamo certo questa direzione allo scandalo della Traviata e della Stuarda né per la concertazione, né per le idee, né per gli esiti, voglio sottolinearlo. Però a questa giovane bacchetta mancano un po’ il senso della serata, ossia la capacità di reagire quando questa si infiacchisce progressivamente; il senso del canto, perché se i cantanti non hanno i mezzi per realizzare le idee è inutile e sterile, oltre che dannoso per lo spettacolo, continuare ad ignorarli lasciandoli fuori tempo a lunguire da soli o a chiedere loro prodezze vocali al di sopra delle loro possibilità. Meno autocompiacimento per le proprie convinzioni musicali, soprattutto se il tempo largo, virtuosismo direttoriale di cui oggi và di moda compiacersi, non è sostenuto da effettiva abilità, mestiere e sapienza, tanto da non addormentare un’opera da sempre coinvolgente, immediata, passionale e diretta.
La signora Ainhoa Arteta, Musetta, ha ottenuto un piccolo successo personale alle singole, a riprova che cantare forte, anche al di là del necessario, paga sempre, soprattutto con un pubblico neofita e distratto. Voce di soprano leggero, figlia della tradizione spagnola delle voci “puntute e proiettate”, la Arteta ci ha dispensato il leggendario valzer del secondo atto cantando sempre forte, con i centri scoperti e spingendo decisamente la voce, tanto da risultare frequentemente crescente di intonazione. Gli acuti, naturalmente, piccoli e striduli, perché tutto quel che precede è gonfiato a dismisura. E’ riuscita a sembrare la voce più grande, cantando senza infamia e senza lode, e soprattutto con poco fascino la sua scena. Complice il vuoto orchestrale del finale secondo, è stata nettamente sopra coro e cantanti. Peccato che mancasse un pizzico di ….eleganza.
Spagnoli, voce priva di armonici ma decisamente sonora, è stato un Marcello in linea con il resto: funziona il personaggio, anche perché è un cantante di mestiere e la parte non richiede molto; però si gradirebbe un canto morbido in frasi come quelle del duettino Oh Mimì tu più non torni con Rodolfo. Anche lui, come la sua collega, tende a cantare forte ma poc’altro. Normalissimo lo Schaunard di Natale De Carolis, un po’ usurato vocalmente, e tristissimo,invece, il Colline di Giovan Battista Parodi, vocalmente ottuagenario, per giunta accompagnato pesantemente e fiaccamente da Dudamel.
Bel successo per tutti alla fine, in particolare per il dorettore, ma…….pura ruotine, di quella che si sentiva in seconda provincia sino a venti anni fa.
Vedremo se nei prossimi giorni ci riuscirà di aggiornarvi sul primo cast, Vassilva Sartori, mentre certamente parleremo del volantinaggio pro Muti-Abbado che, come ben sapete, è avvenuto la sera della prima recita.
Eh….voi alla Scala avete visto ben altre Bohème…perdonate il passatismo e la sfegatata fede freniana! 😀
Saluti!