Ripresa della nuova produzione dello scorso anno affidata a Denis Krief anche questo Nabucco, come la Tosca dell’altra sera, trova la sua ragion d’essere nei due nomi protagonisti, il grande Leo Nucci, Maria Guleghina e nel direttore d’orchestra, Daniel Oren, anch’egli dalla lunga frequentazione con Nabucco e con l’Arena.
Ne dovrebbe sortire uno spettacolo di grande effetto, invece, salvo il coro, qualche sprazzo dell’orchestra e alcuni momenti del mattatore Leo Nucci, la serata è stat priva di grandi momenti.
Innanzitutto vale spendere due parole sulla regia di Denis Krief, ennesimo genio-innovatore-rivoluzionario del teatro di regia, che, alle prese con un’opera che da Arena decisamente sarebbe, ovviamente rinuncia a qualsiasi seppur minimo tentativo di essere tradizionale per cercare un vuoto modernismo, che oggi pare ancor più l’apoteosi del visto e dello stravisto, del banale e dell’inutile.
Un’enorme struttuta metallica bianca campeggia sul palcoscenico con dei libri al suo interno, a rappresentare una biblioteca, simbolo della cultura degli ebrei, al cui lato si trovano una serie di cilindri tagliati a metà, che dovrebbero in qualche modo rappresentare i babilonesi…o queste almeno erano le intenzioni del regista. I costumi sono rigorosamente verde militare, marrone o neri, unica eccezione il bianco di Fenena, ed è la solita riproposizione di cappotti, vestaglie, palandrane, kimoni visti in svariati spettacoli che possono andare dall’Orfeo di Monteverdi alla Lucia di Lammermoor al Cavaliere della rosa. I babilonesi marciano alla maniera dei cosacchi e al terzo atto Abigaille e il coro femminile di sue seguaci sono vestite in maniera punk, con una grossa parrucca leonina alla Tina Turner che fa sembrare la Guleghina una Loredana Bertè dell’opera. In aggiunta qualche luce rossa al neon, la cui simbologia non sappiamo decifrare.
Di regia vera e propria non ve n’è affatto, nessun lavoro sugli interpreti, molto tradizionali nello stare in scena, nel bene e nel male, nessun idea originale, a meno che l’idea originale non fosse quella di far cantare il Va’ pensiero (benissimo eseguito dal coro e da Oren e bissato come di tradizione) nella struttura metallica-biblioteca.
Ci chiediamo francamente il senso di una simile non-regia, che non è innovativa e non è originale. I cosiddetti geni delle regie moderne di regie vere e proprie ne fanno sempre meno, limitandosi invece piuttosto a inserire paccottiglia quinci e quivi senza un minimo di logica pretendendo di spacciarla per arte. In realtà, almeno nell’opinione di chi scrive, non vi è molta differenza fra una regia come questa e il vecchio “Si entra da destra, si esce da sinistra, il coro entra dal centro”. Solo una, la seconda è culturalmente molto più onesta, sebbene non giustifichi…. un lauto cachet!
A capeggiare il cast, più in forma che nel recente Macbeth scaligero, Leo Nucci, che arriva spavaldo a cavallo, facendo capire fin da subito che la grinta non gli sarebbe mancata neanche per questa serata areniana. Il canto è ancora buono, la voce molto sonora, i rilievi del tempo si sentono nell’intonazione, non sempre precisa, e nei frequenti portamenti che miniano l’intonazione più di una volta. Il suo Nabucco non brilla per finezze, si esprime, anzi, quasi sempre sul forte o sul mezzo-forte. Il recente esempio della rozzezza di Lucic-Rigoletto induce a non essere troppo severi con il vero leone dell’Arena, ultimo baluardo insieme a Bruson, di un professionismo della corda baritonale che si sta vieppiù perdendo.
Insieme a Nucci trionfatrice della serata è stata Maria Guleghina, che ha, a dire il vero, solo il merito di avere una voce importante (in un mondo in cui famose, ma non certo brave, Lady Macbeth hanno il volume di Mimì), più grossa che grande e tecnicamente decisamente non irreprensibile. L’aggressività con la quale decide di caratterizzare Abigaille la spinge a cantare quasi sempre forte e fortissimo, spingendo e spesso gridando. I tentativi di cantare piano, come in Anch’io dischiuso un giorno, o nel finale, sono rovinati a causa delle mende tecniche, che fan sì che la voce si spezzi in più di un punto e che non emetta dei veri e propri pianissimi, quanto, invece, dei suoni falsettati e ingolati. L’intonazione poi, non è mai pulita, gli acuti sono spesso calanti e lo sono anche alcuni suoni centrali (nella sezione centrale del duetto con Nabucco marcatamente). E vale la pena notare che il notevole volume dei primi due atti al terzo è sensibilmente ridotto, causa, forse, la fatica di un canto tanto forzato. Fa storcere il naso pensare che una cantante con grossi problemi di dinamica e senza alcuna fantasia interpretativa sarà la nuova Adriana Lecouvreur del Metropolitan di New York……..sic!
Roberto Scandiuzzi come Zaccaria mostra più evidentemente i segni del tempo. La voce suona alle volte ingolata, nella zona medio-acuta e nel grave estremo si producono suoni malfermi, mentre alcuni acuti, come quello che conclude la profezia, sono fibrosi e duri. Né si puo’ dire, con queste premesse, che il personaggio e l’altera sacralità del sacerdote ebraico, siano venuti fuori in qualche modo. La coppia di innamorati Fenena-Ismaele era composta da Rossana Rinaldi e Valter Borin. La prima non riesce a brillare nel breve ruolo di Fenena, in scena piuttosto come la Maddalena del Rigoletto, e con più di un problema nella linea vocale, che inficiano la riuscita dell’arioso Oh dischiuso è il firmamento, coronato da un acuto strozzato e fisso. Valter Borin, invece, proprio negli acuti di Ismaele spera e affronta ogni nota dal fa diesis al la come si trattasse del do della Pira, con una voce però da lirico-leggero, una esagerata veemenza, senz perciò convincere più di tanto. Completava il cast il buon sacerdote di Belo di Carlo Striuli e la coppia Anna-Abdallo.
Molto bello il suono dell’orchestra, guidata dalla mano esperta di Daniel Oren, un po’ generico e con la tendenza ai tempi rapidi, che ha trovato i suoi momenti migliori nei brani più concitati dell’opera, perdendo però la sacralità di momenti come la profezia di Zaccaria, letteralmente tirata via, forse anche per favorire l’inteprete, alquanto in difficoltà. Come già detto, molto bene il coro che si guadagna le ovazioni del Va’ pensiero, bissato come di consueto.
Una nota di merito al solito entusista clacqueur dell’Arena, che ha dispensato superlativi assoluti agli interpreti di Tosca e di questo Nabucco, concludendo le rappresentazioni con due sentimentali Viva Puccini ! e Viva Verdi!. Un piccolo protagonista dell’Arena.
Ne dovrebbe sortire uno spettacolo di grande effetto, invece, salvo il coro, qualche sprazzo dell’orchestra e alcuni momenti del mattatore Leo Nucci, la serata è stat priva di grandi momenti.
Innanzitutto vale spendere due parole sulla regia di Denis Krief, ennesimo genio-innovatore-rivoluzionario del teatro di regia, che, alle prese con un’opera che da Arena decisamente sarebbe, ovviamente rinuncia a qualsiasi seppur minimo tentativo di essere tradizionale per cercare un vuoto modernismo, che oggi pare ancor più l’apoteosi del visto e dello stravisto, del banale e dell’inutile.
Un’enorme struttuta metallica bianca campeggia sul palcoscenico con dei libri al suo interno, a rappresentare una biblioteca, simbolo della cultura degli ebrei, al cui lato si trovano una serie di cilindri tagliati a metà, che dovrebbero in qualche modo rappresentare i babilonesi…o queste almeno erano le intenzioni del regista. I costumi sono rigorosamente verde militare, marrone o neri, unica eccezione il bianco di Fenena, ed è la solita riproposizione di cappotti, vestaglie, palandrane, kimoni visti in svariati spettacoli che possono andare dall’Orfeo di Monteverdi alla Lucia di Lammermoor al Cavaliere della rosa. I babilonesi marciano alla maniera dei cosacchi e al terzo atto Abigaille e il coro femminile di sue seguaci sono vestite in maniera punk, con una grossa parrucca leonina alla Tina Turner che fa sembrare la Guleghina una Loredana Bertè dell’opera. In aggiunta qualche luce rossa al neon, la cui simbologia non sappiamo decifrare.
Di regia vera e propria non ve n’è affatto, nessun lavoro sugli interpreti, molto tradizionali nello stare in scena, nel bene e nel male, nessun idea originale, a meno che l’idea originale non fosse quella di far cantare il Va’ pensiero (benissimo eseguito dal coro e da Oren e bissato come di tradizione) nella struttura metallica-biblioteca.
Ci chiediamo francamente il senso di una simile non-regia, che non è innovativa e non è originale. I cosiddetti geni delle regie moderne di regie vere e proprie ne fanno sempre meno, limitandosi invece piuttosto a inserire paccottiglia quinci e quivi senza un minimo di logica pretendendo di spacciarla per arte. In realtà, almeno nell’opinione di chi scrive, non vi è molta differenza fra una regia come questa e il vecchio “Si entra da destra, si esce da sinistra, il coro entra dal centro”. Solo una, la seconda è culturalmente molto più onesta, sebbene non giustifichi…. un lauto cachet!
A capeggiare il cast, più in forma che nel recente Macbeth scaligero, Leo Nucci, che arriva spavaldo a cavallo, facendo capire fin da subito che la grinta non gli sarebbe mancata neanche per questa serata areniana. Il canto è ancora buono, la voce molto sonora, i rilievi del tempo si sentono nell’intonazione, non sempre precisa, e nei frequenti portamenti che miniano l’intonazione più di una volta. Il suo Nabucco non brilla per finezze, si esprime, anzi, quasi sempre sul forte o sul mezzo-forte. Il recente esempio della rozzezza di Lucic-Rigoletto induce a non essere troppo severi con il vero leone dell’Arena, ultimo baluardo insieme a Bruson, di un professionismo della corda baritonale che si sta vieppiù perdendo.
Insieme a Nucci trionfatrice della serata è stata Maria Guleghina, che ha, a dire il vero, solo il merito di avere una voce importante (in un mondo in cui famose, ma non certo brave, Lady Macbeth hanno il volume di Mimì), più grossa che grande e tecnicamente decisamente non irreprensibile. L’aggressività con la quale decide di caratterizzare Abigaille la spinge a cantare quasi sempre forte e fortissimo, spingendo e spesso gridando. I tentativi di cantare piano, come in Anch’io dischiuso un giorno, o nel finale, sono rovinati a causa delle mende tecniche, che fan sì che la voce si spezzi in più di un punto e che non emetta dei veri e propri pianissimi, quanto, invece, dei suoni falsettati e ingolati. L’intonazione poi, non è mai pulita, gli acuti sono spesso calanti e lo sono anche alcuni suoni centrali (nella sezione centrale del duetto con Nabucco marcatamente). E vale la pena notare che il notevole volume dei primi due atti al terzo è sensibilmente ridotto, causa, forse, la fatica di un canto tanto forzato. Fa storcere il naso pensare che una cantante con grossi problemi di dinamica e senza alcuna fantasia interpretativa sarà la nuova Adriana Lecouvreur del Metropolitan di New York……..sic!
Roberto Scandiuzzi come Zaccaria mostra più evidentemente i segni del tempo. La voce suona alle volte ingolata, nella zona medio-acuta e nel grave estremo si producono suoni malfermi, mentre alcuni acuti, come quello che conclude la profezia, sono fibrosi e duri. Né si puo’ dire, con queste premesse, che il personaggio e l’altera sacralità del sacerdote ebraico, siano venuti fuori in qualche modo. La coppia di innamorati Fenena-Ismaele era composta da Rossana Rinaldi e Valter Borin. La prima non riesce a brillare nel breve ruolo di Fenena, in scena piuttosto come la Maddalena del Rigoletto, e con più di un problema nella linea vocale, che inficiano la riuscita dell’arioso Oh dischiuso è il firmamento, coronato da un acuto strozzato e fisso. Valter Borin, invece, proprio negli acuti di Ismaele spera e affronta ogni nota dal fa diesis al la come si trattasse del do della Pira, con una voce però da lirico-leggero, una esagerata veemenza, senz perciò convincere più di tanto. Completava il cast il buon sacerdote di Belo di Carlo Striuli e la coppia Anna-Abdallo.
Molto bello il suono dell’orchestra, guidata dalla mano esperta di Daniel Oren, un po’ generico e con la tendenza ai tempi rapidi, che ha trovato i suoi momenti migliori nei brani più concitati dell’opera, perdendo però la sacralità di momenti come la profezia di Zaccaria, letteralmente tirata via, forse anche per favorire l’inteprete, alquanto in difficoltà. Come già detto, molto bene il coro che si guadagna le ovazioni del Va’ pensiero, bissato come di consueto.
Una nota di merito al solito entusista clacqueur dell’Arena, che ha dispensato superlativi assoluti agli interpreti di Tosca e di questo Nabucco, concludendo le rappresentazioni con due sentimentali Viva Puccini ! e Viva Verdi!. Un piccolo protagonista dell’Arena.
Gli ascolti
Verdi – Nabucco
Parte I
Prode guerrier – Olivia Stapp, Gordon Greer & Susan Quittmeyer
Tremin gl’insani – Matteo Manuguerra, Adelaida Negri & Rouel Beukers
Parte III
Donna, chi sei? – Renato Bruson & Christine Deutekom
Del futuro nel buio discerno – Bonaldo Giaiotti
Parte IV
Dio di Giuda…Cadran, cadranno i perfidi – Paolo Silveri
Su me…morente…esanime – Caterina Mancini