Il 23 maggio del 1814 al Theater am Kärntnertor di Vienna, andava finalmente in scena Fidelio, oder die eheliche Liebe, terza ed ultima redazione dell’unica e tormentata fatica teatrale di Ludwig van Beethoven. Poco o nulla ci sarebbe da dire per introdurre l’opera: sono, infatti, ben conosciute da tutti le complesse vicende relative alla sua composizione, le differenti versioni susseguitesi dal 1805 (l’anno della sfortunata Leonore) sino alla versione definitiva, e il travaglio fatto di continue modifiche, aggiusti, revisioni, miglioramenti e cambiamenti di cui sono valide testimoni le 4 diverse redazioni dell’Ouverture (che conosceranno, poi, un autonomo e fortunato destino concertistico). Questa familiarità con l’opera, si riflette da una parte in una costante presenza della stessa nel grande repertorio – soprattutto nei teatri di tradizione germanica – dall’altra si distingue in una ragguardevole discografia, a partire dagli anni ’40 del secolo.
Tuttavia, nonostante la conoscenza del titolo da parte del grande pubblico, nonostante il buon numero di testimonianze discografiche e nonostante i grandi nomi che hanno affrontato il titolo anche in teatro, Fidelio è da sempre oggetto – rectius vittima – di due grandi fraintendimenti: uno di natura politica ed ideologica, l’altro di carattere interpretativo, che, forse, proprio l’ininterrotta tradizione esecutiva – anche ai massimi livelli – ha contribuito a perpetuare.
Da sempre, infatti, si è voluto leggere nel Fidelio una sorta di inno alla libertà dell’uomo, un invito rivolto all’Umanità tutta ad affrancarsi da ogni tirannide oscurantista, una più o meno esplicita traduzione musicale degli ideali della Rivoluzione Francese (che allora da poco aveva incendiato l’Europa). Complice di questa lettura è la vulgata che ha fatto di Beethoven l’epigono di un certo atteggiamento ideologico progressista (quando non rivoluzionario), un giacobino/libertario che avversò Napoleone (si pensi alle vicende legate alla Sinfonia Nr. 3) proprio perché ritenuto colpevole del tradimento di quegli stessi ideali: uno strenuo oppositore dell’ancien régime insomma. La realtà storica – al di là di queste suggestioni che si vorrebbe sorpassate – è ben diversa, anche se è ancora molto difficile superare la portata di tali pregiudizi (che oggi addirittura paiono estremizzarsi nelle mani di registi politicamente impegnati e totalmente digiuni di storia non solo musicale, basti pensare al recente Fidelio diretto da Claudio Abbado). Beethoven, al di là delle storielle e dell’aneddotica più spiccia, non fu mai un progressista, egli, anzi, rimase tutta la vita legato ad un’idealità illuminista e kantiana, fondamentalmente legittimista e quindi conservatrice dell’ordine legale e dello status quo. Limitando l’analisi alla sola opera in questione (anche se l’argomento – molto vasto – meriterebbe un più ampio approfondimento), bisogna innanzitutto basarsi sulle fonti. E partiamo da quella letteraria (di cui si deve necessariamente tener conto) che è un dramma francese a tesi marcatamente anti robespierriana, quel Léonore ou l’amour conjugal dell’avvocato Jan-Nicolas Boully (che fu liberale, monarchico, rivoluzionario, legittimista e poi ancora monarchico a seconda della convenienza politica del momento), e che intende celebrare i valori del singolo e dell’amore coniugale (il matrimonio tradizionale, come fulcro e fondamento di ogni società che vuole essere “giusta”) contro i soprusi del nuovo potere (ancorché inteso come emanazione del popolo sovrano). Un testo fortemente legittimista in cui è lo stesso “potere tradizionale” – rappresentato dall’aristocrazia – a riparare i torti e a stabilire l’ordine. Altro che rivoluzione, altro che emancipazione dell’uomo! Beethoven non interverrà mai sulle tesi del testo, poiché espressioni anche del suo universo ideale, che è quello dell’ordine e della legittimità. In questo senso assume un significato illuminante una frase di Leonora che racchiude la struttura portante dell’etica beethoveniana, nel terzetto dell’Atto I (Nr. 5 della partitura): “Ich hab auf Gott und Recht Vertrauen”, cioè “confido in Dio e nel Diritto”. Moralità e legalità. Nulla quindi, di sovversivo o rivoluzionario. E anche laddove la scrittura beethoveniana pare prestare maggiormente il fianco a letture progressiste (il coro dei prigionieri o il finale II), in realtà, se meglio si osserva, si scoprirà come non vi siano mai accenti di rottura rivoluzionaria, ma di ripristino di un ordine legale, razionale e morale: una tensione soprattutto etica, che si potrebbe dire kantiana.
L’altro fraintendimento attiene invece all’interpretazione strettamente musicale. Anche qui l’equivoco è generato dalla solita vulgata che fa di Beethoven un compositore “romantico”, nel mito del genio solitario e tormentato. E di conseguenza Fidelio ne assume gli stessi caratteri. La forzatura – già evidente – assumerà proporzioni ancora più marcate allorquando, negli ultimi anni del XIX secolo e nella prima metà del XX, la critica, soprattutto quella tedesca, ormai vittima dell’ubriacatura wagneriana (i cui postumi persistono ancora oggi) e di certe concezioni messianiche della storia musicale (e non…), per cui tutto il preesistente non sarebbe stato altro che una preparazione all’avvento di Wagner (come se questo costituisse di per sé un necessario progresso), Fidelio diverrà, anch’esso come Gluck o come Weber, un prototipo di “dramma musicale” ante litteram. Da qui ne è derivato un generale appesantimento della partitura, schiacciata da organici sproporzionati, da una portata sonora sovrabbondante, da una imposta solennità retorica e fuori luogo, dall’esasperazione di tempi straordinariamente ampi, dalla preponderanza dell’elemento sinfonico e così via. L’effetto di questa lettura wagnerianamente orientata è la sparizione di ogni trasparenza, di ogni compostezza formale, di ogni leggerezza, di ogni languore, di ogni rimando a Mozart e a Haydn, compromettendo così il classicismo della partitura, i suoi equilibri e le sue proporzioni, e ignorandone scientemente il carattere di Singspiel (giustificando così anche i tagli, tra cui l’aria dell’oro, perché troppo “leggera” e incongrua in una lettura così fortemente indirizzata, o l’omissione – e la rielaborazione – dei dialoghi parlati). Fidelio andrebbe, invece, inteso nella scia di quelle opéra à sauvetage che conobbero enorme diffusione a cavallo dei due secoli e che furono – insieme alla più composta tragedia di tipo classico – l’espressione più tipica del neoclassicismo musicale, avendo in Cherubini (definito da Beethoven “il più grande di tutti”) l’incontrastato paradigma.
Del resto anche l’analisi della partitura rimanda necessariamente a questa dimensione estetica. Sia per ciò che attiene al trattamento orchestrale sia per ciò che concerne le voci. La vocalità richiesta per Leonora, infatti – nonostante alcuni ritengano sia appannaggio delle più esagitate “sbraitatrici” wagneriane – è quella del soprano mozartiano, ricco di sfumature, dal legato impeccabile e dal fraseggio morbido, sicuro nell’acuto e nelle agilità, come lo furono, del resto, le prima interpreti (da Pauline Anna Milder Hauptmann – il cui repertorio includeva Spontini, Gluck, Pamina e Donna Elvira, nonché il Bach della Matthaus-Passion riesumata da Mendelssohn del 1829 – alla Schroder-Devrient nel 1822 alla presenza dello stesso Beethoven, fino alla Malibran). Ancora più spinosa la questione relativa a Florestano, spessissimo risolto in chiave di Heldentenor, con tutti gli inevitabili inciampi nella grande aria dell’atto II, con tanto di cabaletta (nella versione finale), che richiede ovviamente il dominio del registro acuto e delle agilità e dove i mastodonti wagneriani si strozzano o affogano. Anche Don Pizzarro fu vittima della trasformazione di Fidelio in “dramma musicale” e così il timbro chiaro e raffinato di Johann Michael Vogl (primo interprete del ruolo, baritono dal repertorio molto ampio che includeva oltre a Gretry, Cherubini, Mozart e Weigl, pure ruoli da tenore, come nell’Idomeneo, e che fu tra i più grandi divulgatori dell’opera liederistica di Schubert), si trasformò via via nei tornituranti orchi nibelungici a cui siamo ormai avvezzi. Marzelline, Jaquino e anche Rocco, invece, appartengono a quei ruoli di mezzo carattere, leggeri quasi comici, tipici del Singspiel, peculiarità queste irrimediabilmente perse (o sdegnosamente rigettate) nella fuorviante lettura wagneriana dell’opera, che nella sua ponderosa seriosità non ammetteva “leggerezze” e divagazioni.
Ora, il combinato disposto dei due suddetti equivoci può portare (e spesso ha portato) a risultati del tutto estranei all’opera così come venne composta da Beethoven. Oltretutto, mentre negli anni’50 e ’60 questa lettura poteva trovare da una parte la giustificazione storica di una tradizione esecutiva ormai ritenuta maggioritaria, dall’altra il riscatto di questi fraintendimenti attraverso l’indubbio fascino di interpretazioni esaltanti, oggi la sua riproposizione appare grottesca. Come del resto, è discutibile una lettura minimalista che si vuole collocare ideologicamente agli antipodi, secondo gli invalsi schemi barocchisti che, se evita l’ipertrofismo tardoromantico che ne ha dilatato i confini, non riesce a “riempire il vuoto” lasciato sul campo. Eppure basterebbe ritornare ad un’estetica classicista appena screziata dalle temperie dello Sturm und Drang e ad un canto stilisticamente adeguato (che ha i suoi riferimenti in Mozart e Haydn), per trovare un convincente equilibrio! Naturalmente accanto ad una impostazione eccessivamente romantica (il cui valore, ancorchè deformante, sarebbe ingiusto sottovalutare), coesistono interpretazioni che hanno invece recuperato il carattere originale del Singspiel di Beethoven.
Se si scorre la vasta discografia dell’opera si osserverà come i grandi interpreti si siano mossi essenzialmente su queste due direttrici. Da una parte la scuola storica di Bruno Walter, Toscanini, Furtwaengler, Klemperer, fino a Solti. Dall’altra parte in un ritorno a dimensioni neoclassiche e al recupero del carattere di Singspiel: Erich Kleiber, Fricsay, Karajan e Bernstein (ma questo recupero del classicismo si intravede anche nelle edizioni di Vittorio Gui). Se si ascolta Furtwaengler – e parlando di Fidelio non si può che partire da qui – si ha l’esatta idea del fascino esercitato dalla lettura iper romantica, dalla sua tensione morale, dalla visione da opera-oratorio: una forzatura certamente, ma così splendidamente eseguita da risultare convincente. Parlo soprattutto dell’edizione live del 1950 con la Flagstad che, seppur esponente di un canto che per mille ragioni non si attaglia a Leonora, tuttavia, coerentemente con la concezione di Furtwaengler appare qui splendida interprete. Nell’incisione in studio del ’53, invece, il grande direttore, confermando la propria lettura, opterà per una Mödl assai più problematica, soprattutto nel registro acuto, palesando tutti i limiti della wagnerizzazione dell’opera. Stesse considerazioni possono essere spese per il Florestano di Patzak e di Windgassen, che non riescono – perché non possono – superare agevolmente lo scoglio dell’aria e della cabaletta. Certo i momenti corali e sinfonici rimangono tra i più esaltanti di cui resti testimonianza (valgano per tutti il coro dei prigionieri nell’edizione in studio e la Leonora III – inserita prima del finale II, e salutata da un uragano di applausi – nel live). Anche Toscanini nel ‘44 si era mosso nella stessa direzione (senza però indulgere in nessun eccesso di solennità), anzi accentuando ancor di più l’aspetto drammatico e sinfonico anche se con tempi assai più concitati di quelli adottati poi da Furtwaengler. Molto convincenti i protagonisti, la Bampton e, soprattutto, Peerce, pur con tutti i problemi che le rispettive vocalità comportano (è sempre questo il punto: la lettura storica inciampa necessariamente negli scogli della vocalità che mal si adatta a voci wagneriane). Lo stesso Walter (nel ’41 e poi nel ’51) pur restando fedele all’impostazione del “dramma musicale”, stacca tempi rapidi e vibranti senza eccedere in compiacimenti e con grande presenza teatrale. Una splendida direzione, affiancata da una splendida Flagstad (soprattutto nel 1941) nella sua migliore interpretazione di Leonora, non statua di marmo, ma essere umano che soffre davvero (ed è straordinario vedere come la differenza di bacchetta produca nei medesimi cantanti personaggi anche diametralmente opposti). La lezione di Furtwaengler verrà poi estremizzata da Klemperer nel 1962: l’atmosfera è solenne e ieratica, i tempi sono larghissimi, l’orchestra è granitica, compatta e maestosa, ma la teatralità è bandita così pure ogni accenno di classicismo. Non è affatto priva di fascino questa versione oratoriale (soprattutto negli imponenti squarci sinfonici e corali e nella percepibile tensione morale dell’insieme), tuttavia non è il Fidelio di Beethoven. Il cast, in compenso presenta una Ludwig e un Vickers nelle loro condizioni migliori, e questo evita alcuni (solo alcuni…) dei soliti problemi. Da questo solco interpretativo non si sposterà neppure Solti (e poi, con risultati alterni Haitink, Dohnàny, Davis e, con risultati pessimi Barenboim). Parallelamente a questa concezione, coesiste un’altra visione dell’opera (contemporanea a quella storica, dimostrazione quindi che non si può liquidare il passato come portatore di una sola tradizione esecutiva e che ormai sarebbe superata), che ne recupera il carattere originale di Singspiel e ne restaura la classicità, la trasparenza, i rimandi a Mozart e a Haydn, i debiti a Cherubini. Una visione più moderna ed equilibrata che ripulisce orchestra e voci da certe pesantezze wagneriane, e che sposta l’attenzione dalle alte ed astratte idealità di un teatro pretestuosamente didascalico (nell’equivoco ideologico di cui già ho parlato) ad un più concreto approccio che vede l’uomo e i suoi rapporti come centro di interesse e di indagine. Dove, finalmente, la poeticità e la fragilità degli affetti umani e individuali, non viene soffocata dai roboanti vessilli di utopie palingenetiche. In questo senso è emblematica l’edizione diretta da Erich Kleiber nel ’56, capolavoro di equilibrio nel saper dosare i tanti aspetti che caratterizzano la partitura, senza forzarne mai la portata. Ricca di chiaroscuri, di sfumature. Con un suono orchestrale puro e trasparente, ma allo stesso tempo screziato di malinconie preromantiche. A ciò si aggiunga un ottimo cast in cui spicca una Nilsson che riesce a dominare le asperità di Leonora, senza sforzi, senza scivoloni. Sulla stessa linea Fricsay nel ’57 che sottolinea ancora di più le ascendenze mozartiane del Fidelio. Interpretazione che trova ulteriore conferma con Karajan nel 1962 (live da Salisburgo con cast pressoché identico a quello di Klemperer, ma con un risultato finale del tutto opposto: anche se i cantanti non rispondono come dovrebbero – in particolare Vickers – all’impostazione orchestrale) e poi nel 1970 in studio di registrazione (dove il virtuosismo direttoriale del direttore salisburghese potrà esprimersi ai livelli massimi, realizzando un’esecuzione di tuttora ineguagliata ricchezza espressiva, varietà sonora, cura del dettaglio e bellezza timbrica – peccato per il solito Vickers). Infine, sulla stessa linea, Bernstein. Si potrebbe dire qualcosa – per avvicinarci all’oggi – dell’edizione diretta da Harnoncourt: tuttavia le intuizioni del direttore e la sua interessantissima e personalissima lettura, sono irrimediabilmente compromesse da un cast vocale non all’altezza (esattamente come nel caso del suo Freischutz). Sull’incisione di Barenboim, invece, meglio stendere il velo dell’oblio. Così pure l’inaccettabile edizione di Gardiner (che tra l’altro, dichiara di rifarsi alla prima versione dell’opera, mentre in realtà confeziona – spigolando tra le diverse redazioni – un libero e discutibilissimo riadattamento di cui non si comprende il senso). Un accenno, infine, alla questione della Leonora III. Terza redazione dell’Ouverture, anch’essa scartata da Beethoven a favore di quella che oggi ascoltiamo nella versione definitiva dell’opera, il brano, in ragione della sua straordinaria bellezza, venne recuperato dalla prassi teatrale ottocentesca (credo che il primo fu Otto Nicolai) e inserito inizialmente tra primo e secondo atto, poi (in una tradizione che risale a Mahler) collocato prima del finale II. Ovviamente se si ragiona con l’intransigenza della filologia, tale inserimento è sempre censurabile. Ma se si ragiona dal punto di vista musicale non si capisce perché mai rinunciare ad uno straordinario effetto, quando inserito in una visione coerente e motivata: penso a Bernstein (per me il più grande direttore beethoveniano della nostra epoca) che non solo opta per l’inserimento della Leonora III prima del finale, ma la salda alla struttura musicale dell’opera, eliminando lo stacco tra l’ultimo duetto Florestano/Leonora e l’inizio dell’Ouverture, lasciando che l’uno sfumi nell’altra, prolungando l’accordo finale del primo nell’attacco della seconda (privata del colpo di timpano iniziale). Splendido! Non è filologico? E chi se ne importa..Gli ascolti
Tuttavia, nonostante la conoscenza del titolo da parte del grande pubblico, nonostante il buon numero di testimonianze discografiche e nonostante i grandi nomi che hanno affrontato il titolo anche in teatro, Fidelio è da sempre oggetto – rectius vittima – di due grandi fraintendimenti: uno di natura politica ed ideologica, l’altro di carattere interpretativo, che, forse, proprio l’ininterrotta tradizione esecutiva – anche ai massimi livelli – ha contribuito a perpetuare.
Da sempre, infatti, si è voluto leggere nel Fidelio una sorta di inno alla libertà dell’uomo, un invito rivolto all’Umanità tutta ad affrancarsi da ogni tirannide oscurantista, una più o meno esplicita traduzione musicale degli ideali della Rivoluzione Francese (che allora da poco aveva incendiato l’Europa). Complice di questa lettura è la vulgata che ha fatto di Beethoven l’epigono di un certo atteggiamento ideologico progressista (quando non rivoluzionario), un giacobino/libertario che avversò Napoleone (si pensi alle vicende legate alla Sinfonia Nr. 3) proprio perché ritenuto colpevole del tradimento di quegli stessi ideali: uno strenuo oppositore dell’ancien régime insomma. La realtà storica – al di là di queste suggestioni che si vorrebbe sorpassate – è ben diversa, anche se è ancora molto difficile superare la portata di tali pregiudizi (che oggi addirittura paiono estremizzarsi nelle mani di registi politicamente impegnati e totalmente digiuni di storia non solo musicale, basti pensare al recente Fidelio diretto da Claudio Abbado). Beethoven, al di là delle storielle e dell’aneddotica più spiccia, non fu mai un progressista, egli, anzi, rimase tutta la vita legato ad un’idealità illuminista e kantiana, fondamentalmente legittimista e quindi conservatrice dell’ordine legale e dello status quo. Limitando l’analisi alla sola opera in questione (anche se l’argomento – molto vasto – meriterebbe un più ampio approfondimento), bisogna innanzitutto basarsi sulle fonti. E partiamo da quella letteraria (di cui si deve necessariamente tener conto) che è un dramma francese a tesi marcatamente anti robespierriana, quel Léonore ou l’amour conjugal dell’avvocato Jan-Nicolas Boully (che fu liberale, monarchico, rivoluzionario, legittimista e poi ancora monarchico a seconda della convenienza politica del momento), e che intende celebrare i valori del singolo e dell’amore coniugale (il matrimonio tradizionale, come fulcro e fondamento di ogni società che vuole essere “giusta”) contro i soprusi del nuovo potere (ancorché inteso come emanazione del popolo sovrano). Un testo fortemente legittimista in cui è lo stesso “potere tradizionale” – rappresentato dall’aristocrazia – a riparare i torti e a stabilire l’ordine. Altro che rivoluzione, altro che emancipazione dell’uomo! Beethoven non interverrà mai sulle tesi del testo, poiché espressioni anche del suo universo ideale, che è quello dell’ordine e della legittimità. In questo senso assume un significato illuminante una frase di Leonora che racchiude la struttura portante dell’etica beethoveniana, nel terzetto dell’Atto I (Nr. 5 della partitura): “Ich hab auf Gott und Recht Vertrauen”, cioè “confido in Dio e nel Diritto”. Moralità e legalità. Nulla quindi, di sovversivo o rivoluzionario. E anche laddove la scrittura beethoveniana pare prestare maggiormente il fianco a letture progressiste (il coro dei prigionieri o il finale II), in realtà, se meglio si osserva, si scoprirà come non vi siano mai accenti di rottura rivoluzionaria, ma di ripristino di un ordine legale, razionale e morale: una tensione soprattutto etica, che si potrebbe dire kantiana.
L’altro fraintendimento attiene invece all’interpretazione strettamente musicale. Anche qui l’equivoco è generato dalla solita vulgata che fa di Beethoven un compositore “romantico”, nel mito del genio solitario e tormentato. E di conseguenza Fidelio ne assume gli stessi caratteri. La forzatura – già evidente – assumerà proporzioni ancora più marcate allorquando, negli ultimi anni del XIX secolo e nella prima metà del XX, la critica, soprattutto quella tedesca, ormai vittima dell’ubriacatura wagneriana (i cui postumi persistono ancora oggi) e di certe concezioni messianiche della storia musicale (e non…), per cui tutto il preesistente non sarebbe stato altro che una preparazione all’avvento di Wagner (come se questo costituisse di per sé un necessario progresso), Fidelio diverrà, anch’esso come Gluck o come Weber, un prototipo di “dramma musicale” ante litteram. Da qui ne è derivato un generale appesantimento della partitura, schiacciata da organici sproporzionati, da una portata sonora sovrabbondante, da una imposta solennità retorica e fuori luogo, dall’esasperazione di tempi straordinariamente ampi, dalla preponderanza dell’elemento sinfonico e così via. L’effetto di questa lettura wagnerianamente orientata è la sparizione di ogni trasparenza, di ogni compostezza formale, di ogni leggerezza, di ogni languore, di ogni rimando a Mozart e a Haydn, compromettendo così il classicismo della partitura, i suoi equilibri e le sue proporzioni, e ignorandone scientemente il carattere di Singspiel (giustificando così anche i tagli, tra cui l’aria dell’oro, perché troppo “leggera” e incongrua in una lettura così fortemente indirizzata, o l’omissione – e la rielaborazione – dei dialoghi parlati). Fidelio andrebbe, invece, inteso nella scia di quelle opéra à sauvetage che conobbero enorme diffusione a cavallo dei due secoli e che furono – insieme alla più composta tragedia di tipo classico – l’espressione più tipica del neoclassicismo musicale, avendo in Cherubini (definito da Beethoven “il più grande di tutti”) l’incontrastato paradigma.
Del resto anche l’analisi della partitura rimanda necessariamente a questa dimensione estetica. Sia per ciò che attiene al trattamento orchestrale sia per ciò che concerne le voci. La vocalità richiesta per Leonora, infatti – nonostante alcuni ritengano sia appannaggio delle più esagitate “sbraitatrici” wagneriane – è quella del soprano mozartiano, ricco di sfumature, dal legato impeccabile e dal fraseggio morbido, sicuro nell’acuto e nelle agilità, come lo furono, del resto, le prima interpreti (da Pauline Anna Milder Hauptmann – il cui repertorio includeva Spontini, Gluck, Pamina e Donna Elvira, nonché il Bach della Matthaus-Passion riesumata da Mendelssohn del 1829 – alla Schroder-Devrient nel 1822 alla presenza dello stesso Beethoven, fino alla Malibran). Ancora più spinosa la questione relativa a Florestano, spessissimo risolto in chiave di Heldentenor, con tutti gli inevitabili inciampi nella grande aria dell’atto II, con tanto di cabaletta (nella versione finale), che richiede ovviamente il dominio del registro acuto e delle agilità e dove i mastodonti wagneriani si strozzano o affogano. Anche Don Pizzarro fu vittima della trasformazione di Fidelio in “dramma musicale” e così il timbro chiaro e raffinato di Johann Michael Vogl (primo interprete del ruolo, baritono dal repertorio molto ampio che includeva oltre a Gretry, Cherubini, Mozart e Weigl, pure ruoli da tenore, come nell’Idomeneo, e che fu tra i più grandi divulgatori dell’opera liederistica di Schubert), si trasformò via via nei tornituranti orchi nibelungici a cui siamo ormai avvezzi. Marzelline, Jaquino e anche Rocco, invece, appartengono a quei ruoli di mezzo carattere, leggeri quasi comici, tipici del Singspiel, peculiarità queste irrimediabilmente perse (o sdegnosamente rigettate) nella fuorviante lettura wagneriana dell’opera, che nella sua ponderosa seriosità non ammetteva “leggerezze” e divagazioni.
Ora, il combinato disposto dei due suddetti equivoci può portare (e spesso ha portato) a risultati del tutto estranei all’opera così come venne composta da Beethoven. Oltretutto, mentre negli anni’50 e ’60 questa lettura poteva trovare da una parte la giustificazione storica di una tradizione esecutiva ormai ritenuta maggioritaria, dall’altra il riscatto di questi fraintendimenti attraverso l’indubbio fascino di interpretazioni esaltanti, oggi la sua riproposizione appare grottesca. Come del resto, è discutibile una lettura minimalista che si vuole collocare ideologicamente agli antipodi, secondo gli invalsi schemi barocchisti che, se evita l’ipertrofismo tardoromantico che ne ha dilatato i confini, non riesce a “riempire il vuoto” lasciato sul campo. Eppure basterebbe ritornare ad un’estetica classicista appena screziata dalle temperie dello Sturm und Drang e ad un canto stilisticamente adeguato (che ha i suoi riferimenti in Mozart e Haydn), per trovare un convincente equilibrio! Naturalmente accanto ad una impostazione eccessivamente romantica (il cui valore, ancorchè deformante, sarebbe ingiusto sottovalutare), coesistono interpretazioni che hanno invece recuperato il carattere originale del Singspiel di Beethoven.
Se si scorre la vasta discografia dell’opera si osserverà come i grandi interpreti si siano mossi essenzialmente su queste due direttrici. Da una parte la scuola storica di Bruno Walter, Toscanini, Furtwaengler, Klemperer, fino a Solti. Dall’altra parte in un ritorno a dimensioni neoclassiche e al recupero del carattere di Singspiel: Erich Kleiber, Fricsay, Karajan e Bernstein (ma questo recupero del classicismo si intravede anche nelle edizioni di Vittorio Gui). Se si ascolta Furtwaengler – e parlando di Fidelio non si può che partire da qui – si ha l’esatta idea del fascino esercitato dalla lettura iper romantica, dalla sua tensione morale, dalla visione da opera-oratorio: una forzatura certamente, ma così splendidamente eseguita da risultare convincente. Parlo soprattutto dell’edizione live del 1950 con la Flagstad che, seppur esponente di un canto che per mille ragioni non si attaglia a Leonora, tuttavia, coerentemente con la concezione di Furtwaengler appare qui splendida interprete. Nell’incisione in studio del ’53, invece, il grande direttore, confermando la propria lettura, opterà per una Mödl assai più problematica, soprattutto nel registro acuto, palesando tutti i limiti della wagnerizzazione dell’opera. Stesse considerazioni possono essere spese per il Florestano di Patzak e di Windgassen, che non riescono – perché non possono – superare agevolmente lo scoglio dell’aria e della cabaletta. Certo i momenti corali e sinfonici rimangono tra i più esaltanti di cui resti testimonianza (valgano per tutti il coro dei prigionieri nell’edizione in studio e la Leonora III – inserita prima del finale II, e salutata da un uragano di applausi – nel live). Anche Toscanini nel ‘44 si era mosso nella stessa direzione (senza però indulgere in nessun eccesso di solennità), anzi accentuando ancor di più l’aspetto drammatico e sinfonico anche se con tempi assai più concitati di quelli adottati poi da Furtwaengler. Molto convincenti i protagonisti, la Bampton e, soprattutto, Peerce, pur con tutti i problemi che le rispettive vocalità comportano (è sempre questo il punto: la lettura storica inciampa necessariamente negli scogli della vocalità che mal si adatta a voci wagneriane). Lo stesso Walter (nel ’41 e poi nel ’51) pur restando fedele all’impostazione del “dramma musicale”, stacca tempi rapidi e vibranti senza eccedere in compiacimenti e con grande presenza teatrale. Una splendida direzione, affiancata da una splendida Flagstad (soprattutto nel 1941) nella sua migliore interpretazione di Leonora, non statua di marmo, ma essere umano che soffre davvero (ed è straordinario vedere come la differenza di bacchetta produca nei medesimi cantanti personaggi anche diametralmente opposti). La lezione di Furtwaengler verrà poi estremizzata da Klemperer nel 1962: l’atmosfera è solenne e ieratica, i tempi sono larghissimi, l’orchestra è granitica, compatta e maestosa, ma la teatralità è bandita così pure ogni accenno di classicismo. Non è affatto priva di fascino questa versione oratoriale (soprattutto negli imponenti squarci sinfonici e corali e nella percepibile tensione morale dell’insieme), tuttavia non è il Fidelio di Beethoven. Il cast, in compenso presenta una Ludwig e un Vickers nelle loro condizioni migliori, e questo evita alcuni (solo alcuni…) dei soliti problemi. Da questo solco interpretativo non si sposterà neppure Solti (e poi, con risultati alterni Haitink, Dohnàny, Davis e, con risultati pessimi Barenboim). Parallelamente a questa concezione, coesiste un’altra visione dell’opera (contemporanea a quella storica, dimostrazione quindi che non si può liquidare il passato come portatore di una sola tradizione esecutiva e che ormai sarebbe superata), che ne recupera il carattere originale di Singspiel e ne restaura la classicità, la trasparenza, i rimandi a Mozart e a Haydn, i debiti a Cherubini. Una visione più moderna ed equilibrata che ripulisce orchestra e voci da certe pesantezze wagneriane, e che sposta l’attenzione dalle alte ed astratte idealità di un teatro pretestuosamente didascalico (nell’equivoco ideologico di cui già ho parlato) ad un più concreto approccio che vede l’uomo e i suoi rapporti come centro di interesse e di indagine. Dove, finalmente, la poeticità e la fragilità degli affetti umani e individuali, non viene soffocata dai roboanti vessilli di utopie palingenetiche. In questo senso è emblematica l’edizione diretta da Erich Kleiber nel ’56, capolavoro di equilibrio nel saper dosare i tanti aspetti che caratterizzano la partitura, senza forzarne mai la portata. Ricca di chiaroscuri, di sfumature. Con un suono orchestrale puro e trasparente, ma allo stesso tempo screziato di malinconie preromantiche. A ciò si aggiunga un ottimo cast in cui spicca una Nilsson che riesce a dominare le asperità di Leonora, senza sforzi, senza scivoloni. Sulla stessa linea Fricsay nel ’57 che sottolinea ancora di più le ascendenze mozartiane del Fidelio. Interpretazione che trova ulteriore conferma con Karajan nel 1962 (live da Salisburgo con cast pressoché identico a quello di Klemperer, ma con un risultato finale del tutto opposto: anche se i cantanti non rispondono come dovrebbero – in particolare Vickers – all’impostazione orchestrale) e poi nel 1970 in studio di registrazione (dove il virtuosismo direttoriale del direttore salisburghese potrà esprimersi ai livelli massimi, realizzando un’esecuzione di tuttora ineguagliata ricchezza espressiva, varietà sonora, cura del dettaglio e bellezza timbrica – peccato per il solito Vickers). Infine, sulla stessa linea, Bernstein. Si potrebbe dire qualcosa – per avvicinarci all’oggi – dell’edizione diretta da Harnoncourt: tuttavia le intuizioni del direttore e la sua interessantissima e personalissima lettura, sono irrimediabilmente compromesse da un cast vocale non all’altezza (esattamente come nel caso del suo Freischutz). Sull’incisione di Barenboim, invece, meglio stendere il velo dell’oblio. Così pure l’inaccettabile edizione di Gardiner (che tra l’altro, dichiara di rifarsi alla prima versione dell’opera, mentre in realtà confeziona – spigolando tra le diverse redazioni – un libero e discutibilissimo riadattamento di cui non si comprende il senso). Un accenno, infine, alla questione della Leonora III. Terza redazione dell’Ouverture, anch’essa scartata da Beethoven a favore di quella che oggi ascoltiamo nella versione definitiva dell’opera, il brano, in ragione della sua straordinaria bellezza, venne recuperato dalla prassi teatrale ottocentesca (credo che il primo fu Otto Nicolai) e inserito inizialmente tra primo e secondo atto, poi (in una tradizione che risale a Mahler) collocato prima del finale II. Ovviamente se si ragiona con l’intransigenza della filologia, tale inserimento è sempre censurabile. Ma se si ragiona dal punto di vista musicale non si capisce perché mai rinunciare ad uno straordinario effetto, quando inserito in una visione coerente e motivata: penso a Bernstein (per me il più grande direttore beethoveniano della nostra epoca) che non solo opta per l’inserimento della Leonora III prima del finale, ma la salda alla struttura musicale dell’opera, eliminando lo stacco tra l’ultimo duetto Florestano/Leonora e l’inizio dell’Ouverture, lasciando che l’uno sfumi nell’altra, prolungando l’accordo finale del primo nell’attacco della seconda (privata del colpo di timpano iniziale). Splendido! Non è filologico? E chi se ne importa..Gli ascolti
L. van Beethoven – Fidelio
Atto I
Abscheulicher – Kirsten Flagstad (dir. Bruno Walter)
Atto II
Gott! Welch Dunkel hier – Jacques Urlus, Hermann Jadlowker