Una Sonnambula con due facce quella genovese, con il tenore ed il soprano a specchiarsi l’uno nell’altro grazie alla visione unitaria di Oren, sognante, lirica e lentissima; una concertazione motivata da ragioni opposte, il lasciar cantare per l’uno ed il soccorrere continuo per l’altra, perché opposti sono effettivamente i due cantanti protagonisti, Shalva Mukeria e Nino Machaidze.
Daniel Oren, infatti, disponendo di una protagonista dalla voce di soprano leggero, debole dal punto di vista tecnico, in difficoltà nel canto sia in zona di passaggio che nella coloratura, ha scelto la via di tempi larghi e sognanti, anche nelle cabalette, funzionali a consentirle di aver tempo per “trovare” i suoni e di eseguire anche la scrittura minuta, grande artificio che ha dato modo alla musicista, obbiettivamente ricca di intenzioni interpretative assai pertinenti, di trovare una modalità espressiva ad onta di un timbro che, sempre per ragioni tecniche, si è fatto vetroso ed acidulo rispetto alla Fille du Regiment scaligera dell’anno passato. Sull’altro lato Shalva Mukeria, già suo partner nella Filla Saligera: tenore dalla voce chiara ma corposa, per natura portato all’espressione malinconica e lirica, tecnicamente solidissimo nella zona del passaggio superiore e dotato di grande estensione e proiezione in acuto, ha tratto giovamento da una direzione con tempi larghi, che gli ha consentito di esibire un legato di grande qualità ed un contino alternarsi di smorzature e suoni rinforzati quali la tradizione vocale e lo stile “rubiniano” esigono.
Anche nei cori, tanto importanti nella costruzione del clima agreste e notturno dell’opera, Oren ha staccato tempi lenti, ricchi di piani e smorzature, e sorretti dal coro genovese con accento astratto e soffuso: peccato solo per qualche svarione all’ingresso, perché poi tutta la recita è corsa via in perfetto accordo con la buca. L’orchestra ha suonato bene, senza cercare astruserie o assurdi motivi di originalità, in modo direi semplicemente….funzionale all’idea di fondo, ossia creare un clima coerente con la musica ma sempre atto a reggere il canto. L’esecuzione ha implicato il taglio di pressoché tutti i da capo salvo quello del rondò finale di Amina ( la cabaletta della sortita di Amina, quella di Elvino, quella del Conte Rodolfo, il concertato I, l’aria e la cabaletta di Elvino, ) l’aria di Lisa al II atto e la scena Elvino-Lisa “Lisa mendace anch’essa”.
Nei dettagli:
L’Amina della lanciatissima Nino Machaidze, che si è assunta anche l’onere delle recite di primo cast in cui era prevista Mariola Cantarero, è di aspetto garbato e dolcissimo in scena, lirica e purissima nelle intenzioni musicali, ma afflitta dai problemi tecnici che condizionano inevitabilmente la resa vocale. Sin dal suo apparire con le battute del recitativo la voce è ostica per timbro, ed appena arrivano il passaggio si bem – fa sulla a di amplesso o, nel Come per me sereno quello della discesa la bem – sol di nacque, o la stonacchiatura sul fa della a di amor la colorò ben se ne capiscono le ragioni. Oren stacca un lentissimo ( più lento dell’aria ) nel Sovra il sen la man mi posa eseguito dalla Machaidze cercando di governare la correttezza del suono, che diventa però acido di nuovo sulla frase …forza a sostener, con difficoltà evidenti per non strillare il re bem toccato; le code poi sono eseguite tutte spampanate per la stanchezza di quanto prima eseguito. Soffre il confronto al duetto con un Elvino estatico e languido, che và a nozze con i tempi larghissimi di Oren e che dispone di una voce piena e sonora. Il bellissimo coro che narra la storia del fantasma dopo l’aria del Conte introduce un’atmosfera notturna e magica che precede il Son geloso del zefiro: di nuovo le battute del recitativo Elvino, e me tu lasci senza un tenero addio? meriterebbero una voce dolcissima e tenera, non querula e petulante. Elvino canta il suo canto d’amore in solitudine, perché Amina non lo può seguire su quel terreno ove Bellini, magicamente commuove l’ascoltatore con la sua nenia sublime, grazie agli effetti del canto legato: non può essere estatica ed il regista, scellerato complice di un misfatto anziché coadiutore della musica, condanna Amina a…….. stirare, con tanto di asse, ferro a vapore e gruppo di frigoriferi ed elettrodomestici assortiti alle spalle! L’acuto crescente in chiusa è figlio della stanchezza e, perché no, di una scottatura da ferro da stiro!
Quanto detto può ben esemplificare e spiegare quanto accade dopo, dalle frasi crescenti pronunciate nella scena che ha luogo nella stanza del Conte, sino al finale I, attaccato sempre con intenzioni musicali bellissime ma durante il quale il soprano piano piano sparisce per la stanchezza, l’attacco sol – re del Reggimi o madre in apertura di secondo atto, a tutta la grande scena finale, dove paga l’assenza di legato nella scrittura centrale dell’Ah non credea mirarti, ove le frasi non escono con la dovuta fluidità e rotondità del canto da belcanto, appunto, ed al successivo rondò, ove i suoni brutti sono davvero troppi, nonostante il soccorrevole Oren rallenti il tempo del da capo per consentire l’esecuzione della coloratura ( i picchettati hanno veramente sofferto…). Inutile dire che il pubblico le ha tributato alla fine un vero successo.
Non ho difficoltà ad ammettere che l’Elvino del signor Mukeria mi è piaciuto moltissimo. Anzi, mi ha veramente emozionato, perché il cantante, oltre che essere molto capace tecnicamente, è assai espressivo. Espressivo di quell’espressività elegante e raffinata che è dei grandi tenori, ossia nella misura di uno stile contenuto, mai plateale o gratuito, ma intenso e malinconico. E la malinconia, si sa, è una delle peculiarità della musica belliniana, dunque …..ecco la magia dell’emozione creata con il gusto e con la tecnica, in un ruolo, l’Elvino versione Ricordi, che resta comunque uno dei più ingrati e difficili del belcanto romantico.
La voce non impressiona per qualità timbriche, ma è nettamente connotata, molto chiara e giovanile, priva di tratti eunucoidi o falsettanti. Il suono arriva facile e sempre legato, mai forzato o spinto, mai sul forte, salvo in qualche raro momento, quando serve. E la sicurezza del canto sul passaggio gli consente di avere numerose frecce al suo arco in questo ruolo, perché è lì e sui primissimi acuti che Bellini colloca tanti punti coronati, che Mukeria ha trasformato in smorzature bellissime ed intense, esibite senza eccesso di compiacimento o maniera.
Sin dalle prime battute d’ingresso la voce ha, in primo luogo una sonorità diversa rispetto a quelle presenti in scena, più vicina e presente, ed il biglietto da visita del tenore di grazia è il fa coronato sull’Ah di Ah tutto è il core, sonorissimo e avanti. Il Prendi l’anel ti dono ha una linea di canto elegantissima, ricca di piani e sfumature, e frasi come cara, nel sen ti posi questa gentil viola toccano il cuore di chi ascolta per la loro intensità emotiva. Compaiono anche un paio di portamenti, ma non come mezzo per prendere le note “da sotto “, bensì come prassi di stile, poiché non è mai un problema per questo tenore cantare ogni nota alta in modo centrato e diretto. All’allegretto Ah vorrei trovar parola la salita al do scritto su guardi e facile e l’acuto suona come la note più ampia e sonora della gamma.
Mukeria canta anche il successivo duetto con Amina con l’arte di chi sa come si debbono “porgere“ le frasi con stile ed eleganza: nelle battute di recitativo che precedono, nel passaggio fa coronato – do di Perdona, esegue una smorzatura da brivido e mette tra se e la compagna di viaggio una distanza stilistica sterminata, quella tra l’aristocratico signore e la giovinetta…..che pare proprio di bassi natali. Nei passaggi vocalizzati tra la prima e la seconda strofa esegue le cadenze usando piani sostenutissimi, facilissimi e veramente impressionanti. E così lo spettatore è perennemente attratto nell’ascolto del tenore, che canta il quintetto che precede il finale primo D’un pensiero d’un accento con un’eleganza, un dolore composto e dolcissimo che paiono veramente d’altri tempi, non certo dei nostri. E di nuovo, rubinianamente, smorza il sol coronato scritto su del di questo pianto del mio cor prima dell’attacco del coro, ed alla fine il pubblico gli tributa una grande applauso personale.
Un vero peccato i tagli di Oren al secondo atto, che mortificano un po’ troppo la parte di Elvino, così veramente monca. Alla bellissima introduzione di Oren all’aria, segue lo scomodo attacco mi –sol del Tutto è sciolto in pianissimo, passando lentamente verso il mezzoforte, sempre con voce sostenutissima e legata, ed il canto arriva nuovamente intenso e dolcissimo. Come legato, secondo prescrizione belliniana, il Taci il guardo e appaga l’alma e facile anche la stretta dell’allegro Ah perché non posso odiarti , con il si bem in chiusa tenuto nell’uscire di scena. Che devo dirvi ancora? Forse che ieri avremmo voluto applaudire per una sola frase, l’ultima di Elvino, quel Più non reggo a tanto duolo a pertichino dell’aria finale di Amina, che ha letteralmente rubato il momento magico al soprano, con una smorzatura, l’ultima, che ci ha commosso davvero.
Quanto al resto, devo ricordare la bella prova di Carlo Colombara, un Conte misurato, nobile, di buona voce anche se di pochi colori a dire la verità. Del resto del cast vocale taccio volentieri.
Quanto al regista, Patrick Mailler, come avrete capito, qualche caduta di tono in un contesto passabile: ha eliminato l’ambientazione alpina, forse ritenuta troppo bucolica, a favore di una modernità bianco e nero che ricorda un po’, nei costumi, le carte di picche del cartoon Alice del Paese delle Meraviglie, sostituendo la casa di Teresa con una sfera che pareva un incrocio tra un grosso batiscafo ed una gabbia pensile. Ha ritenuto, a parte la scena della stireria ( libera citazione dal vecchio Mefistofele fischiatissimo di Ken Russell proprio a Genova o dalla recente Fille du Regiment di Pelly, a voi la scelta ! ) di fa comparire strane pecorelle da presepe in alcune scene, come sullo sfondo della stanza del conte, al duettino con Alisa….no so, forse un’allusione piccante (?!), trasformando le Alpi in un…. ovile, come ha commentato ironicamente il mio anziano vicino di poltrona. Ovile riprodotto poi anche nel foyer della platea, dove le pecorelle ci attendevano per una foto, davanti ad un tavolone imbandito di agresti delizie culinarie ….di plastica!
Il Conte arriva poco nobilmente a cavallo di uno strano triciclo, indossando inspiegabili abiti sahariani, mentre il finale del soprano ha un ambientazione un po’ “disco” durante l’aria, con il buio in scena, una raggio di luce verde dal fondo contro il pubblico e lei in un cono di luce……..insomma, una cifra stilistica diversa ed incongrua da tutto il resto. Poi d’improvviso la scoppio di luce prima del rondò, ed il bianco e nero da giocattolaio si trasformano in verdacci prato e rossi carmini, a terra e sui vestiti del coro, tanto volgari e sfacciati da invocare la censura, e che hanno causato il mormorio scocciato del pubblico.
Però è stata una gran giornata, superiore alla media corrente.
( recita del 3 maggio 2008 )
Daniel Oren, infatti, disponendo di una protagonista dalla voce di soprano leggero, debole dal punto di vista tecnico, in difficoltà nel canto sia in zona di passaggio che nella coloratura, ha scelto la via di tempi larghi e sognanti, anche nelle cabalette, funzionali a consentirle di aver tempo per “trovare” i suoni e di eseguire anche la scrittura minuta, grande artificio che ha dato modo alla musicista, obbiettivamente ricca di intenzioni interpretative assai pertinenti, di trovare una modalità espressiva ad onta di un timbro che, sempre per ragioni tecniche, si è fatto vetroso ed acidulo rispetto alla Fille du Regiment scaligera dell’anno passato. Sull’altro lato Shalva Mukeria, già suo partner nella Filla Saligera: tenore dalla voce chiara ma corposa, per natura portato all’espressione malinconica e lirica, tecnicamente solidissimo nella zona del passaggio superiore e dotato di grande estensione e proiezione in acuto, ha tratto giovamento da una direzione con tempi larghi, che gli ha consentito di esibire un legato di grande qualità ed un contino alternarsi di smorzature e suoni rinforzati quali la tradizione vocale e lo stile “rubiniano” esigono.
Anche nei cori, tanto importanti nella costruzione del clima agreste e notturno dell’opera, Oren ha staccato tempi lenti, ricchi di piani e smorzature, e sorretti dal coro genovese con accento astratto e soffuso: peccato solo per qualche svarione all’ingresso, perché poi tutta la recita è corsa via in perfetto accordo con la buca. L’orchestra ha suonato bene, senza cercare astruserie o assurdi motivi di originalità, in modo direi semplicemente….funzionale all’idea di fondo, ossia creare un clima coerente con la musica ma sempre atto a reggere il canto. L’esecuzione ha implicato il taglio di pressoché tutti i da capo salvo quello del rondò finale di Amina ( la cabaletta della sortita di Amina, quella di Elvino, quella del Conte Rodolfo, il concertato I, l’aria e la cabaletta di Elvino, ) l’aria di Lisa al II atto e la scena Elvino-Lisa “Lisa mendace anch’essa”.
Nei dettagli:
L’Amina della lanciatissima Nino Machaidze, che si è assunta anche l’onere delle recite di primo cast in cui era prevista Mariola Cantarero, è di aspetto garbato e dolcissimo in scena, lirica e purissima nelle intenzioni musicali, ma afflitta dai problemi tecnici che condizionano inevitabilmente la resa vocale. Sin dal suo apparire con le battute del recitativo la voce è ostica per timbro, ed appena arrivano il passaggio si bem – fa sulla a di amplesso o, nel Come per me sereno quello della discesa la bem – sol di nacque, o la stonacchiatura sul fa della a di amor la colorò ben se ne capiscono le ragioni. Oren stacca un lentissimo ( più lento dell’aria ) nel Sovra il sen la man mi posa eseguito dalla Machaidze cercando di governare la correttezza del suono, che diventa però acido di nuovo sulla frase …forza a sostener, con difficoltà evidenti per non strillare il re bem toccato; le code poi sono eseguite tutte spampanate per la stanchezza di quanto prima eseguito. Soffre il confronto al duetto con un Elvino estatico e languido, che và a nozze con i tempi larghissimi di Oren e che dispone di una voce piena e sonora. Il bellissimo coro che narra la storia del fantasma dopo l’aria del Conte introduce un’atmosfera notturna e magica che precede il Son geloso del zefiro: di nuovo le battute del recitativo Elvino, e me tu lasci senza un tenero addio? meriterebbero una voce dolcissima e tenera, non querula e petulante. Elvino canta il suo canto d’amore in solitudine, perché Amina non lo può seguire su quel terreno ove Bellini, magicamente commuove l’ascoltatore con la sua nenia sublime, grazie agli effetti del canto legato: non può essere estatica ed il regista, scellerato complice di un misfatto anziché coadiutore della musica, condanna Amina a…….. stirare, con tanto di asse, ferro a vapore e gruppo di frigoriferi ed elettrodomestici assortiti alle spalle! L’acuto crescente in chiusa è figlio della stanchezza e, perché no, di una scottatura da ferro da stiro!
Quanto detto può ben esemplificare e spiegare quanto accade dopo, dalle frasi crescenti pronunciate nella scena che ha luogo nella stanza del Conte, sino al finale I, attaccato sempre con intenzioni musicali bellissime ma durante il quale il soprano piano piano sparisce per la stanchezza, l’attacco sol – re del Reggimi o madre in apertura di secondo atto, a tutta la grande scena finale, dove paga l’assenza di legato nella scrittura centrale dell’Ah non credea mirarti, ove le frasi non escono con la dovuta fluidità e rotondità del canto da belcanto, appunto, ed al successivo rondò, ove i suoni brutti sono davvero troppi, nonostante il soccorrevole Oren rallenti il tempo del da capo per consentire l’esecuzione della coloratura ( i picchettati hanno veramente sofferto…). Inutile dire che il pubblico le ha tributato alla fine un vero successo.
Non ho difficoltà ad ammettere che l’Elvino del signor Mukeria mi è piaciuto moltissimo. Anzi, mi ha veramente emozionato, perché il cantante, oltre che essere molto capace tecnicamente, è assai espressivo. Espressivo di quell’espressività elegante e raffinata che è dei grandi tenori, ossia nella misura di uno stile contenuto, mai plateale o gratuito, ma intenso e malinconico. E la malinconia, si sa, è una delle peculiarità della musica belliniana, dunque …..ecco la magia dell’emozione creata con il gusto e con la tecnica, in un ruolo, l’Elvino versione Ricordi, che resta comunque uno dei più ingrati e difficili del belcanto romantico.
La voce non impressiona per qualità timbriche, ma è nettamente connotata, molto chiara e giovanile, priva di tratti eunucoidi o falsettanti. Il suono arriva facile e sempre legato, mai forzato o spinto, mai sul forte, salvo in qualche raro momento, quando serve. E la sicurezza del canto sul passaggio gli consente di avere numerose frecce al suo arco in questo ruolo, perché è lì e sui primissimi acuti che Bellini colloca tanti punti coronati, che Mukeria ha trasformato in smorzature bellissime ed intense, esibite senza eccesso di compiacimento o maniera.
Sin dalle prime battute d’ingresso la voce ha, in primo luogo una sonorità diversa rispetto a quelle presenti in scena, più vicina e presente, ed il biglietto da visita del tenore di grazia è il fa coronato sull’Ah di Ah tutto è il core, sonorissimo e avanti. Il Prendi l’anel ti dono ha una linea di canto elegantissima, ricca di piani e sfumature, e frasi come cara, nel sen ti posi questa gentil viola toccano il cuore di chi ascolta per la loro intensità emotiva. Compaiono anche un paio di portamenti, ma non come mezzo per prendere le note “da sotto “, bensì come prassi di stile, poiché non è mai un problema per questo tenore cantare ogni nota alta in modo centrato e diretto. All’allegretto Ah vorrei trovar parola la salita al do scritto su guardi e facile e l’acuto suona come la note più ampia e sonora della gamma.
Mukeria canta anche il successivo duetto con Amina con l’arte di chi sa come si debbono “porgere“ le frasi con stile ed eleganza: nelle battute di recitativo che precedono, nel passaggio fa coronato – do di Perdona, esegue una smorzatura da brivido e mette tra se e la compagna di viaggio una distanza stilistica sterminata, quella tra l’aristocratico signore e la giovinetta…..che pare proprio di bassi natali. Nei passaggi vocalizzati tra la prima e la seconda strofa esegue le cadenze usando piani sostenutissimi, facilissimi e veramente impressionanti. E così lo spettatore è perennemente attratto nell’ascolto del tenore, che canta il quintetto che precede il finale primo D’un pensiero d’un accento con un’eleganza, un dolore composto e dolcissimo che paiono veramente d’altri tempi, non certo dei nostri. E di nuovo, rubinianamente, smorza il sol coronato scritto su del di questo pianto del mio cor prima dell’attacco del coro, ed alla fine il pubblico gli tributa una grande applauso personale.
Un vero peccato i tagli di Oren al secondo atto, che mortificano un po’ troppo la parte di Elvino, così veramente monca. Alla bellissima introduzione di Oren all’aria, segue lo scomodo attacco mi –sol del Tutto è sciolto in pianissimo, passando lentamente verso il mezzoforte, sempre con voce sostenutissima e legata, ed il canto arriva nuovamente intenso e dolcissimo. Come legato, secondo prescrizione belliniana, il Taci il guardo e appaga l’alma e facile anche la stretta dell’allegro Ah perché non posso odiarti , con il si bem in chiusa tenuto nell’uscire di scena. Che devo dirvi ancora? Forse che ieri avremmo voluto applaudire per una sola frase, l’ultima di Elvino, quel Più non reggo a tanto duolo a pertichino dell’aria finale di Amina, che ha letteralmente rubato il momento magico al soprano, con una smorzatura, l’ultima, che ci ha commosso davvero.
Quanto al resto, devo ricordare la bella prova di Carlo Colombara, un Conte misurato, nobile, di buona voce anche se di pochi colori a dire la verità. Del resto del cast vocale taccio volentieri.
Quanto al regista, Patrick Mailler, come avrete capito, qualche caduta di tono in un contesto passabile: ha eliminato l’ambientazione alpina, forse ritenuta troppo bucolica, a favore di una modernità bianco e nero che ricorda un po’, nei costumi, le carte di picche del cartoon Alice del Paese delle Meraviglie, sostituendo la casa di Teresa con una sfera che pareva un incrocio tra un grosso batiscafo ed una gabbia pensile. Ha ritenuto, a parte la scena della stireria ( libera citazione dal vecchio Mefistofele fischiatissimo di Ken Russell proprio a Genova o dalla recente Fille du Regiment di Pelly, a voi la scelta ! ) di fa comparire strane pecorelle da presepe in alcune scene, come sullo sfondo della stanza del conte, al duettino con Alisa….no so, forse un’allusione piccante (?!), trasformando le Alpi in un…. ovile, come ha commentato ironicamente il mio anziano vicino di poltrona. Ovile riprodotto poi anche nel foyer della platea, dove le pecorelle ci attendevano per una foto, davanti ad un tavolone imbandito di agresti delizie culinarie ….di plastica!
Il Conte arriva poco nobilmente a cavallo di uno strano triciclo, indossando inspiegabili abiti sahariani, mentre il finale del soprano ha un ambientazione un po’ “disco” durante l’aria, con il buio in scena, una raggio di luce verde dal fondo contro il pubblico e lei in un cono di luce……..insomma, una cifra stilistica diversa ed incongrua da tutto il resto. Poi d’improvviso la scoppio di luce prima del rondò, ed il bianco e nero da giocattolaio si trasformano in verdacci prato e rossi carmini, a terra e sui vestiti del coro, tanto volgari e sfacciati da invocare la censura, e che hanno causato il mormorio scocciato del pubblico.
Però è stata una gran giornata, superiore alla media corrente.
( recita del 3 maggio 2008 )