Reduci dalla prima di Sansone e Dalila al Comunale di Bologna vogliamo gridarlo: “Gloria ad Inbal vincitore!”. Vincitore perché la sua direzione ha fatto passare in secondo, se non in terzo piano un cast nel complesso assai mediocre (difficile non tanto da dimenticare, quanto da rimuovere) e ha posto in prima linea un’orchestra e un coro al massimo delle rispettive possibilità e al pieno servizio della partitura. Fin dalle battute introduttive i gemiti del popolo d’Israele, la sua improbabile e vittoriosa rivolta, la sensualità fragrante delle donzelle nel tempio di Dagone, la doppiezza lasciva di Dalila, il tormento di Sansone, la sua caduta e la grandguignolesca vendetta conclusiva hanno trovato nel direttore musicale della Fenice un interprete rigoroso, vario e sommamente teatrale. L’acme è stato raggiunto al Baccanale, in cui, affrontando la celeberrima pagina in modo tellurico, il Maestro ha compiuto il prodigio di rendere tollerabile la coreografia, assai ripetitiva, oltre che decisamente brutta da vedere (vedi oltre). L’unico vero difetto di Inbal è stato quello di non aver esercitato la protesta (che sarebbe stata sacrosanta) nei confronti dei cantanti che si è trovato sul palcoscenico.
Iniziamo da José Cura, che molti ritengono uno dei, se non il Sansone per antonomasia dei nostri tempi. Il tenore argentino ha dichiarato di cantare volentieri solo a Bologna, fra i teatri italiani: facile capirne le ragioni, visto che la perfetta acustica del Comunale mette in rilievo come poche altre una voce scura, grossa e tonitruante come nessun’altra (almeno oggi). Le premesse vocali per un Sansone robustamente “vecchio stampo” (alla Del Monaco, alla Vinay per intenderci) ci sarebbero, quindi, se non fosse che l’interprete non si sforza neppure di tradurre la cospicua dote naturale in una qualche specie di canto lirico, limitandosi invece a emettere una sorta di muggito intonato. Il che può anche funzionare (fino a un certo punto) nelle scene più animate e muscolari, come il dialogo con il popolo oppresso e il confronto con Abimelech, ma crolla miseramente non solo e non tanto nei dialoghi con Dalila, ma soprattutto alla Scena della macina. Cura cerca costantemente intenzioni e colori, ma i piani e pianissimi sono in effetti suoni larvali e sbiancati, belli indietro, o si riducono a semplici singhiozzi, con quale effetto sulla tenuta della linea di canto è facile immaginare. Si taccia della fascia medio-acuta, in cui si manifestano suoni sistematicamente tirati. Insomma, a quarantacinque anni il tenore non sembra essere nelle condizioni più acconce per affrontare ancora a lungo questa parte, né molte altre, e non pare fuori luogo l’annunciato passaggio alla regia d’opera, in cui certo troverà terreno fertile per coltivare i suoi indubbi talenti espressivi. Per lui un buon successo di pubblico, ma non travolgente.
Qualche dissenso finale accoglie invece Julia Gertseva, che, già vista e udita nella Carmen fiorentina, continua a non persuaderci per i gravi prossimi all’inesistente, gli acuti aquilini e l’intonazione sovente a rischio. La voce, di timbro assai metallico, non si abbandona alla sensualità della musica (assai gutturale l’incipit del secondo atto), né l’assistono fiati di congrua lunghezza e le modeste fioriture del duetto finale in gloria di Dagone la colgono assai impreparata sotto il profilo tecnico, tanto che i suoni si assottigliano percettibilmente, fin quasi a sparire nel vortice della musica (salvo ricomparire all’improvviso con tratti alquanto striduli).
Mark Rucker potrebbe funzionare come Pistola in un teatro di provincia di contenute dimensioni, ma nell’altera crudeltà del Gran Sacerdote naufraga impietosamente. Non male il Vecchio ebreo di Ivica Cikes, voce di basso di ridotto volume ma rotonda e morbida. Non pervenuti gli altri comprimari, penalizzati anche dalla scelta del regista Znaniecki di collocarli in scena in massima parte in posizione sopraelevata e arretrata rispetto alla ribalta.
La scena, difatti, rappresenta una sorta di città prefabbricata multilivello (con scalette da piscina a collegare i piani) che fungerebbe assai bene per un’Elektra di stampo postindustriale. Gli ebrei, popolo oppresso, occupano ovviamente la parte inferiore, sbertucciati dai filistei i cui costumi e parrucche ricordano da vicino quelli degli alieni nel classico fantasy Mars Attacks! finché Sansone, in felpa col cappuccio da writer, non li induce alla rivolta scagliando la prima pietra (leggasi Intifada). Dopo la fuga dei filistei, i vincitori si ristorano dedicandosi ad abluzioni più o meno sacre fino all’arrivo delle fanciulle dal tempio di Dagone. Dalila vive in un prefabbricato a più piani, dall’interno del quale non si scorge ovviamente il temporale che si prepara nel corso del secondo atto: meno male che ce lo racconta la musica. In compenso vediamo Dalila che, recisi i capelli di Sansone, chiude l’atto accecandolo con una sorta di chiave inglese. La macina è al centro del tempio di Dagone e, mentre Sansone modula il suo lamento, prigionieri ebrei vengono trascinati in scena e rinchiusi in gabbie, per essere poi liberati, derisi e infine sgozzati e/o stuprati durante il Baccanale. Il finale rispetta maggiormente il libretto, se si eccettua la miracolosa e piuttosto accessoria resurrezione degli ebrei uccisi poco prima. Il pubblico non sembra gradire eccessivamente la proposta registica: all’uscita dei responsabili della parte visiva, applausi mescolati a qualche fischio piuttosto deciso.
Nel complesso, a ogni modo, la serata rischia di essere una delle migliori all’interno della stagione lirica che si sta chiudendo. E questo, crediamo, la dice lunga!
SAMSON ET DALILA
Opera in tre atti e quattro quadri di Ferdinand Lemaire
Musica di Camille Saint-Saëns
Dalila – Julia Gertseva
Sansone – José Cura
Il Gran Sacerdote di Dagone – Mark Rucker
Abimelech – Mario Luperi
Un vecchio ebreo – Ivica Cikes
Un messaggero filisteo – Cristiano Olivieri
Due filistei – Paolo Cauteruccio, Mauro Corna
Orchestra e Coro del Comunale di Bologna
Direttore – Eliahu Inbal
Maestro del coro – Paolo Vero
Regia – Michael Znaniecki
Nuovo allestimento Opéra Royal de Wallonie in coproduzione con Fondazione Teatro Comunale di Bologna, Opera Wroclawska e Fondazione Teatro Lirico “Giuseppe Verdi” di Trieste
Stavolta avete proprio toppato. Concordo sulla mediocrità del cast, ma incensare Inbal è un’assurdità. E’ un direttore che pesta sempre a ama le sonorità squassanti in tutti i repertori. La conclusione del secondo atto era di una volgarità imbarazzante. Inoltre, non ha il senso del fraseggio vocale, basti pensare all’accompagnamento affrettato di “Mon coeur…” privo del minimo abbandono. Non sa creare atmosfere e, per conto mio, è negato al teatro.
Il Brahms di Inbal non mi sembra affatto volgare, e nemmeno il suo Saint-Saëns. Né ieri sera ho udito sonorità “squassanti”: il finale del secondo atto, come la coda quello del Baccanale, era feroce, travolgente, e l’unico imbarazzo era dato dal Trahison! di Cura, l’urlo di un montone sgozzato. L’accompagnamento “svelto” al Mon coeur era assolutamente funzionale a una voce priva di cavata e povera di colori come quella della Gertseva: ulteriore dimostrazione della saggezza di Inbal. Difficile creare atmosfere con simili can tanti, ma le parti orchestrali e corali (inizio del I atto, entrata delle fanciulle filistee, scena del tempio) erano fra le cose migliori che ci ha offerto questa stagione (in cui orchestra e coro, specie in Boccanegra e Orfeo, non hanno propriamente brillato).