Finalmente, dopo la tradizione ridda dei “si dice”, “è sicuro che faranno” la stagione 2008-’09 del Teatro alla Scala è stata annunciata.
Le previsioni ossia i “si dice” sono stati rispettati, compresi quelli derivati da repentini cambi figli di poco esaltanti prestazioni della stagione in via di conclusione.
E siccome le voci sono state rispettate è stata anche rispettata l’impressione di limitata ispirazione, di scarsa fantasia sia nella scelta dei titoli che degli interpreti.
Sono più le assenze che le presenze. E le assenze sono particolarmente gravi, in una stagione che propone una decina di titoli, la cui misura vieterebbe di proporre tre opere di Verdi, con la duplice aggravante che Aida e don Carlos sono assai simili nella produzione Verdiana e con l’aggravante che, mai, nella storia dell’esecuzione verdiana tanto grande è stata la carenza di interpreti verdiani. Sia sul palcoscenico che in buca.
Ancora dei nostri striminziti dieci titoli ben tre se li aggiudica il novecento post Puccini e Strauss, naturalmente di limitata modernità (cioè niente Nono, Berio etc). Benemerita l’operazione nelle intenzioni, ma Rake’s progress, Midsummer night dream ed Assassinio nella Cattedrale, che sembra avere rimpiazzato la annunciatissima Norma, sparita, a sentire la sua mancata protagonista, a causa dei soliti vedovi Callas, sono troppe e sproporzionate. Se, poi, scorriamo le recenti e finitime stagioni degli altri teatri italiani vediamo che la scelta brilla per scarsa fantasia.
Come nella parsimonia di titoli proporre tutti gli anni un titolo di Janacek trasforma la Scala nella succursale del Teatro di Brno o di Praga e dimostra, ulteriormente, la povertà di idee dei soggetti statutariamente deputati alle scelte artistiche (e culturali). La scelta di elevare culturalmente il pubblico scaligero propinandogli l’integrale di Janacek mi ricorda certe integrali del periodo abbadiano come quello delle sinfonie di Mahler nelle stagioni 1971 e 1972 (dove non comparve, se la memoria non mi fa difetto, una sinfonia di Beethoven od una di Mozart) o la trasformazione della Scala nella succursale del Bolschoi con l’integrale di Moussorsky, incentivo serio e concludente alla sparizione della parte più vitale del teatro milanese: il loggione.
Per altro la diffusione dell’opera russa è tale per cui la tourneé del teatro ospiti è quella del Bolshoi e l’opera Eugenio Onegin, che credo superi Boheme o Butterfly nel numero di rappresentazioni in tempi recenti.
La poca fantasia e mancata lettura, persino della mitica Garzantina, trova il suo trionfo nella decisione di proporre l’opera barocca. Anzi il “baroccò” come lo ha chiamato il soprintendente, che ha pure spacciato per una novità assoluta l’idea di rappresentare la trilogia monteverdiana (francamente di trilogie dalla popolare verdiana, alla Tudor donizettiana siano esauriti) con identico direttore, impianto scenico e responsabili della parte visiva. Idea, che venne partorita intorno al 1975 dal teatro di Zurigo, i cui prodotti vennero, pure, offerti al pubblico scaligero nella famosa stagione del bicentenario. La scelta di Orfeo, poi, lascia molto perplessi perché trattandosi di festa barocca prevista per un salone della residenza dei Gonzaga e con l’aggravante, che si vorrà oggi offrire una esecuzione rispettosa delle voci e degli orchestrali di quella prima edizione lo spazio scaligero mal si adatta all’impresa.
E poi i tre titoli, di cui si promette la unitaria ed annuale realizzazione, sono quanto di più scontato e riproposto oltre misura, a maggior ragione se si considera che la dirigenza del massimo teatro italiano ignora musicisti come Cavalli, la tradizione veneziana dei Legrenzi, Pollarolo e Steffani, che fra l’altro ben si accorderebbe con gli spazi scaligeri.
Anche la scelta di Alcina di Handel sa di affrettata scelta come fu, qualche anno or sono, la proposizione agli Arcimboldi del Rinaldo, allestimento nato nel 1984 al Valli di Reggio Emilia, anche perché Alcina è stata l’unica opera proposta in Scala nella stagione 1985. Senza evocare fantasmi di altri autori come Hasse e Porpora, ossia i diretti concorrenti di Handel a Londra il nome di Vivaldi, assente da sempre, credo, nei titoli proposti in Scala non può non venire in mente. Siamo sempre alle voci più rilevanti della Garzantina. Non abbiamo, per scelta nominato Vinci, Leo o Boschi, che già hanno un certo che di sconosciuto o addirittura di ignoto.
Tacciamo, poi, dell’idea di proporre autori come Sacchini, Anfossi e Cimarosa, che sarebbero illuminanti per capire l’operismo successivo. Basta ascoltare un titolo come “Orazi e Curiazi” di Cimarosa. Anzi ai preposti alle scelte dovrebbe bastare la lettura del canto e pianoforte.
Diciamo che ignorare i musicisti sopra citati è la peggior voragine la autentica voragine, che dimostra la programmazione, omettendo un qualunque lavoro francese vuoi del barocco, vuoi operà-comiqué (da quanti anni in Scala non si offre un titolo consueto sino agli anni ’50 come Mignon?), per tacere di Gounod (autore non solo del Faust) o di Massenet, anche lui autore di molti titoli oltre Manon e Werther (peraltro assente da oltre cinque lustri) sino al grand’operà. Riguardo il quale non si dica a giustificazione l’assenza quasi cinquatennale che sono titoli difficili da rappresentare, perché don Carlos ha uno schieramento vocale, oltre che un’origine, che è da Grand-Opéra.
Ma il vero profondo buco in un teatro che rimane italiano e che pertanto dovrebbe conservare il patrimonio musicale italiano e riproporlo è l’assenza di un lavoro del periodo che va dal 1870 al 1930 e che non sia Verdi o Puccini. Non si tratta di disquisire di valori musicali, ma semplicemente di proporre testimonianze. Sarà, poi, il pubblico a valutare, ma il compito dei teatri è proporre. Ed anche qui non si tirino in ballo scusanti come l’interesse del pubblico, il teatro pieno, perché né Janacek, né Monteverdi sono e possono essere Traviata o Rigoletto. E quindi la scusa non regge.
L’assenza di opere come Wally, Isabeau, Iris, Francesca di Rimini è inspiegabile e grave, a prescindere dall’intrinseco valore musicale dei titoli, ma per la privazione della rappresentazioni di lavori connotanti e caratteristica di una lunga stagione dell’operismo italiano.
In questo senso erano assai più oneste le scelte di cinquant’anni or sono che offrivano gli Ugonotti di fatto in selezione, Giulio Cesare con uno schieramento vocale sontuoso, ma più atto a Cavalleria e Fedora, ma almeno li offrivano.
Taccio, figlio della Rossini renaissance, della proposta viaggio a Reims.
Il Viaggio fu nel settembre 1985, in Scala un evento unico ed assoluto, schierando una compagnia di cantanti famossimi, dove, per amor di verità, spiccavano tre cantanti di scuola americana di levatura storica.Opinione più volte espressa, ma….
Inoltre la riproposizione dell’allestimento di Ronconi potrebbe fare brutti scherzi a chi vide la prima edizione.
E sino a qui siamo a interpretazioni nostalgico-vedovili, che servono a nulla e non hanno pertinenza con la scelta del teatro.
Però…una piccola riflessione è d’obbligo: il Viaggio nacque per mettere in scena le stelle del teatro degli Italiani di Parigi, quindi con parti di limitata lunghezza, ma di difficoltà assoluta come si conveniva ad un Parnaso canoro, i cantanti del des Italiens erano, di fatto, una compagnia stabile o quasi, il Viaggio fu l’occasione per esibirli tutti insieme.
Oggi in epoca di miseria o quasi di difficoltà assoluta ad allestire un Tancredi piuttosto che una Semiramide (lavori che vent’anni or sono potevano avere tre interpreti per ciascuna prima parte) la riproposizione del Viaggio è quanto meno fuori luogo.
Le due riprese di Tristano e Idomeneo dimostrano, invece, la ovvietà delle scelte visive. Fanno entrambe parte degli allestimenti minimalisti e post moderni tutti grigiori e pesanti cappottoni da Berlino (est, naturalmente anni cinquanta) e ci domandiamo se sia possibile che due melodrammi assolutamente antitetici evochino, nei soggetti preposti alla loro visualizzazione le stesse identiche tetre minimaliste e scontate idee figurative. Per la cronaca il primo allestimento in abiti moderni di un’opera di Wagner avvenne a Berlino nel 1931!!!!
In buona sostanza si può affermare che la scelta dei titoli più che dettata da istanze ed esigenze culturali, da obblighi, morali, di proporre titoli e repertori nasca dalla disponibilità di taluni big essenzialmente della bacchetta e della regia a ripercorre nel teatro milanese percorsi nati e pensati e realizzati altrove.
E questo ci sembra in disprezzo di tradizioni, che sarebbe onere ed onore preservare.
L’impressione della scarsa considerazione del pubblico diviene certezza allorquando si scorrono sia pure ad una prima disamina i nomi dei cantanti.
Un esame attento delle difficoltà od impossibilità che gli stessi potrebbero incontrare potrebbe essere tacciato di prevenzione. Che tale non è perchè note le caratteristiche dell’artista scritturato e le peculiarità dello spartito il conto è presto fatto. Solo che è un “conto” che spetta preventivamente ad altri e a posteriori al pubblico.
Pubblico, però, sia lecito dirlo la cui opinione poco o nulla conta.
Tetragona la direzione dimostra di essere poco o nulla informata sulle condizioni attuali di alcuni cantanti ripetutamente scritturati e magari in opere che costituiscono un debutto o quasi e che hanno riscosso pesanti e reiterati critiche, tetragona nonostante questo e nonostante gli esiti poco felici all’interno del teatro stesso, che hanno indotto a provvidenziali sostituzioni di titoli continua a proporre quei nomi.
Il dubbio è che dell’opinione del pubblico la dirigenza non tenga punto conto e questo fa parte dell’atteggiamento di sufficienza, dimostrato già con la scelta dei titoli oppure che nei palchi di proscenio si sentano cose assolutamente differenti da quelle riservate alle orecchie di platea palchi e galleria.
Per essere stata ideata da un estimatore dell’avanguardia come Stéphane Lissner, la stagione appare alquanto smunta anche dal punto di vista degli allestimenti. Su quattordici titoli solo tre sono nuove produzioni: il Don Carlo affidato al Regisseur Braunschweig, l’Assassinio nella cattedrale curato da Kokkos e le Convenienze e inconvenienze teatrali dirette dal comico Albanese. Per gli altri titoli si pesca da un serbatoio assai eterogeneo che mescola riproposte scaligere di medio, quando non lungo, corso (Due Foscari, Tristano, Aida, Idomeneo, Viaggio a Reims, quest’ultimo ormai alle sue nozze d’argento con la sala del Piermarini), e allestimenti importati – senza fretta – da altri teatri: l’Affare Makropoulos ronconiano risale alla metà degli anni Novanta, di poco successivi sono gli allestimenti carseniani dell’Alcina e del Sogno di una notte di mezza estate, quest’ultimo già visto in Italia a Ravenna e immortalato su dvd nella ripresa al Liceu di Barcellona, mentre relativamente recente è la Carriera di un libertino di Lepage, vista a Bruxelles. E si taccia dell’Onegin importato da Mosca con il “pacchetto Bolshoi”. Insomma, siamo tutti d’accordo che “valorizzare il patrimonio di casa è un dovere e una necessità”, come asserisce la pagina web del Teatro, e sarebbe bene che si affermasse anche in Italia l’idea di un teatro di repertorio, ma in questo caso abbiamo una proposta di repertorio timida e zoppicante anche a livello scenico, alternata a “novità” di assai dubbia consistenza.
Lasciamo l’ultima parola sull’annunciata stagione scaligera a una cantante che avrebbe ancora oggi titolo per esibire la propria magia nell’ambito, l’anno prossimo ahinoi così mesto, dei Concerti di canto:
Caro Domenico, concordo.
Cari lettori del blog e critici in varia forma di DD e GG, Vi prego di leggere l’articolo di Paolo Isotta sul Corriere di oggi, articolo che in buona parte presenta contenuti simili alle opinioni di Donzelli.
Anche Isotta sofferente di turbe e frustrazioni degne di un blog che vedo a volte dipinto come fatto di tanti Hannibal Lecter dell’opera?
E’da notare che Donzelli ha resistito alla tentazione di commentare una serie di cast quantomeno avventurosi….specie quello del Don Carlo inaugurale!
Donzelli,Isotta,Sacchini,Anfossi,Isabeau,la ‘povera’ Berganza….Loreto impagliato e il busto d’Alfieri…rinasco,rinasco nel mille ottocento cinquanta!
Caro Conte, nel 1850 la Scala non aveva più soprani (cfr. guidogozzano)… oggi siamo messi male in tutti i registri vocali.
Amici,
seguo il vostro blog e lo apprezzo,ma non portate Isotta come pezza d´appoggio,perché automaticamente vi squalifichereste.Quel signore scrive cosí solo perché ha fatto per vent´anni l´ufficio stampa di Muti e adesso quello che si fa alla Scala non gli andrebbe bene nemmeno se risuscitassero Karajan e lo mettessero a capo del teatro.E´una persona intellettualmente disonesta,ignorante e incompetente.Basti pensare che,quando ha recensito il Trittico,non si é nemmeno accorto che era stata eseguita la versione originale del monologo di Michele nel “Tabarro” ed era stata reinserita l´aria dei fiori in “Suor Angelica”,oltre a criticare la regia perché,secondo lui,nel libretto del “Tabarro” starebbe scritto che Luigi deve essere ucciso a coltellate!!!Tra le altre sue perle,gli insulti post mortem a Kleiber e Pavarotti,nonché,nell´articolo citato dal commentatore,il fatto che Chung non potrebbe capire l´”Idomeneo” perché é asiatico.
Vergogna al Corriere che permette a un simile figuro di occupare la scrivania che fu di Franco Abbiati.
Ciao da Stoccarda.
Mozart, ti prego!!!
Non abbiamo messo Isotta come pezza d’appoggio, nè mi pare ce ne curiamo o ce ne siamo mai curati molto, anzi….!
Credo che Murgu volesse affermare il contrario, ossia che Isotta mutuerebbe da noi……( forse memore delle sue insolite citazioni del soprano Cobelli all’epoca del Tristano scaligere, e che noi avevamo pubblicato prima della prima tra gli audio interessanti….
L’articolo del Corriere della Sera questa volta ci è sfuggito, perciò ….non saprei che risponderti…
ciaooooooo!
…infatti Murgu voleva semplicemente esprimere la sensazione che Il Corriere della Grisi sia in crescendo di credito presso il pubblico di internet e non solo…libero ognuno di pensare ciò che ritiene di Isotta come di chiunque altro…..