Parafrasando il titolo di un post di un celebre blog statunitense, vorremmo spendere due parole sulla pratica del bis.
La richiesta di un bis è una delle più immediate e schiette espressioni di gradimento che un artista lirico possa ricevere dal pubblico (e tralasciamo i casi di Gigli e Corelli, i quali usavano chiudere una serata trionfale con arie di altre opere e canzoni, spesso accompagnate da un pianoforte verticale tirato in scena a furor di popolo). La storia dell’opera è punteggiata di bis celeberrimi (uno su tutti: quello richiesto da Leopoldo II al termine della seconda recita del Matrimonio segreto, che fu, dopo una congrua interruzione per la cena, ripetuto per intero) e tutti i più grandi artisti ne hanno concessi senza difficoltà. Oggi questa disinvoltura sembra perduta.
Juan Diego Flórez è incontestabilmente un beniamino del pubblico. Qualunque cosa si possa pensare del suo canto, gli va riconosciuta la grande generosità nel rapporto con gli spettatori, generosità che si esprime, in ambito concertistico, soprattutto in sede di bis finali (cfr. la recensione al concerto scaligero dello scorso gennaio). E il pubblico ricambia con generosi applausi, anche a scena aperta. Il tenore peruviano sembra, tuttavia, avere paura del bis, tanto da affrontarlo – in omaggio al motto “principiis obsta” – in sede di comunicati a mezzo stampa prima che in teatro.
Alla Fille du régiment in Scala la richiesta del bis venne in primo luogo dal cantante, che si dichiarò in un’intervista pronto a ripetere l’aria del primo atto: il che puntualmente avvenne.
In questi giorni, al Met, la richiesta di bis, per lo stesso interprete e nella stessa opera, è venuta direttamente dalla direzione del teatro. Sempre dalla stampa abbiamo avuto i dettagli della “macchina” messa in piedi dal teatro per garantire la perfetta efficienza dell’operazione “Bis” la sera della prima.
Il bis, per la cronaca, non si è ripetuto nella recita trasmessa in diretta radiofonica ieri sera.
Non è ovviamente in questione l’organizzazione di un teatro come il Met, ma questa triangolazione del bis (cantante – teatro – pubblico, con il terzo che rimane sullo sfondo e ha un ruolo tutto sommato marginale) ha un retrogusto marketing che lascia perplessi, soprattutto perché, ribadiamo, si parla di un tenore amatissimo dal pubblico e di un teatro notoriamente facile agli entusiasmi.
L’errore, riteniamo, è del management, che, onde evitare gli imprevisti e “limitare i danni”, finisce per ingabbiare e togliere spontaneità a quell’evento travolgente che dovrebbe essere un bis. Come se l’opera avesse bisogno di spegnere ulteriormente l’entusiasmo del suo pubblico.
Non possiamo fare a meno di pensare a quanto avvenne al San Carlo nel 1914, quando il direttore Leopoldo Mugnone si rivolse al suo Cavaradossi, che aveva appena bissato E lucevan le stelle, chiedendogli in dialetto napoletano di ripeterlo ancora una volta, “non per loro, ma per me”. Il tris ebbe luogo e l’orchestra tacque, godendosi assieme a Mugnone il fuori programma.
E’ a quel Cavaradossi, qui nei panni di Werther ugualmente bissante a furor di pubblico, che lasciamo la parola.
La richiesta di un bis è una delle più immediate e schiette espressioni di gradimento che un artista lirico possa ricevere dal pubblico (e tralasciamo i casi di Gigli e Corelli, i quali usavano chiudere una serata trionfale con arie di altre opere e canzoni, spesso accompagnate da un pianoforte verticale tirato in scena a furor di popolo). La storia dell’opera è punteggiata di bis celeberrimi (uno su tutti: quello richiesto da Leopoldo II al termine della seconda recita del Matrimonio segreto, che fu, dopo una congrua interruzione per la cena, ripetuto per intero) e tutti i più grandi artisti ne hanno concessi senza difficoltà. Oggi questa disinvoltura sembra perduta.
Juan Diego Flórez è incontestabilmente un beniamino del pubblico. Qualunque cosa si possa pensare del suo canto, gli va riconosciuta la grande generosità nel rapporto con gli spettatori, generosità che si esprime, in ambito concertistico, soprattutto in sede di bis finali (cfr. la recensione al concerto scaligero dello scorso gennaio). E il pubblico ricambia con generosi applausi, anche a scena aperta. Il tenore peruviano sembra, tuttavia, avere paura del bis, tanto da affrontarlo – in omaggio al motto “principiis obsta” – in sede di comunicati a mezzo stampa prima che in teatro.
Alla Fille du régiment in Scala la richiesta del bis venne in primo luogo dal cantante, che si dichiarò in un’intervista pronto a ripetere l’aria del primo atto: il che puntualmente avvenne.
In questi giorni, al Met, la richiesta di bis, per lo stesso interprete e nella stessa opera, è venuta direttamente dalla direzione del teatro. Sempre dalla stampa abbiamo avuto i dettagli della “macchina” messa in piedi dal teatro per garantire la perfetta efficienza dell’operazione “Bis” la sera della prima.
Il bis, per la cronaca, non si è ripetuto nella recita trasmessa in diretta radiofonica ieri sera.
Non è ovviamente in questione l’organizzazione di un teatro come il Met, ma questa triangolazione del bis (cantante – teatro – pubblico, con il terzo che rimane sullo sfondo e ha un ruolo tutto sommato marginale) ha un retrogusto marketing che lascia perplessi, soprattutto perché, ribadiamo, si parla di un tenore amatissimo dal pubblico e di un teatro notoriamente facile agli entusiasmi.
L’errore, riteniamo, è del management, che, onde evitare gli imprevisti e “limitare i danni”, finisce per ingabbiare e togliere spontaneità a quell’evento travolgente che dovrebbe essere un bis. Come se l’opera avesse bisogno di spegnere ulteriormente l’entusiasmo del suo pubblico.
Non possiamo fare a meno di pensare a quanto avvenne al San Carlo nel 1914, quando il direttore Leopoldo Mugnone si rivolse al suo Cavaradossi, che aveva appena bissato E lucevan le stelle, chiedendogli in dialetto napoletano di ripeterlo ancora una volta, “non per loro, ma per me”. Il tris ebbe luogo e l’orchestra tacque, godendosi assieme a Mugnone il fuori programma.
E’ a quel Cavaradossi, qui nei panni di Werther ugualmente bissante a furor di pubblico, che lasciamo la parola.
Massenet – Werther
Ah non mi ridestar (con bis) – Tito Schipa (Roma 1943)