Come ognun sa, le tradizioni sono molto importanti, specie quando non ne rimangono molte. Persa di vista ormai da tempo quella del Belcanto, il Carlo Felice non rinuncia a omaggiare la gloriosa tradizione del pesce d’aprile, proponendo un Werther che schiera nei ruoli protagonistici due autentici scherzi di natura (o meglio, contro natura): un tenore lirico che urla e un mezzosoprano che ha piuttosto del soprano leggero sul viale del tramonto.
Giuseppe Filianoti, reduce dai nefasti palermitani di Mefistofele e Rake’s progress e soprattutto dallo stremato Edgardo nuovaiorchese, dimostra ancora una volta l’inconfutabile sfascio di una delle voci più belle che siano di recente risuonate nei teatri d’opera: fiati corti, mezzevoci spoggiate e falsettanti, gli acuti ridotti a grida, non di rado anche stonate (e per un tenore che si era fatto un nome con titoli come Favorita, il risultato è sorprendente).
Inutile cercare finezze di fraseggio in una voce così spossata, che annaspa nell’Invocazione alla natura e ulula dal secondo atto in poi. Persino il poema di Ossian, unico momento in cui il tenore cerca un minimo sindacale di colori, si risolve nell’ormai abituale spettacolo della rana che volle farsi bue, trasformando il gentile poeta in un Canio della più profonda provincia, che nel quadro finale sembra aver perduto, oltre alla pace dello spirito, anche quella dell’intestino.
Insomma le brillanti intenzioni del Filianoti lettore di Goethe, così come emerse nel colloquio con lo speaker radiofonico all’intervallo, non si traducono in interpretazione vocale a causa di una tecnica di canto mai stata salda (la nota aleatorietà del settore acuto) e che, con il progressivo venire meno della dote naturale, mostra con sempre maggior evidenza le proprie lacune. Il tutto per l’edificazione di un pubblico che, manco a dirlo, applaude beatamente tanto Filianoti quanto la sua compagna di strada Sonia Ganassi, che nei primi due atti si cava d’impaccio accennando e sussurrando (ma la povertà del registro grave e gli acuti stiracchiati sono evidenti fin dal duetto finale del primo atto). Alla grande scena del terzo atto, la voce suona assai magra e opaca, oltre che tremula, sommamente inadatta a tradurre in musica la composta, ma non esangue, disperazione di Carlotta.
Nel duetto con il tenore la Ganassi, stimolata dal vociante partner, si lancia all’inseguimento emettendo strida aquiline che sfuggono a ogni classificazione, oltre che a ogni controllo. Nel quadro finale si riaffaccia, a congedarsi dal pubblico, la bambina udita nella prima parte, ma come ulteriormente svuotata di energie, come provano i moribondi acuti. I migliori auguri alla signora per i suoi prossimi impegni, Eboli ed Ermione: ruoli che esigono, oltre a sopraffine doti vocali, un temperamento drammatico infinitamente superiore a quello richiesto dalla trepida figlia del Podestà e, a contraccambio, offrono un numero infinitamente superiore di occasioni propizie all’urlo inconsulto.
Accanto a simili colleghi, l’Alberto di Giorgio Caoduro assicura almeno una parvenza di canto e un’accettabile compostezza di accento: peccato solo per la poca incisività del fraseggio, il cui accorto uso renderebbe più sopportabile un personaggio monocorde come pochi altri. Adriana Kucerova è una squittente Sofia. Non pervenuti i comprimari.
Alain Guingal non va oltre la routine: l’orchestra suona discretamente ma il pathos resta sulla carta. Del resto, con protagonisti del genere, arrivare a fine recita è già un lusso, e di questo va reso merito al concertatore.
Giuseppe Filianoti, reduce dai nefasti palermitani di Mefistofele e Rake’s progress e soprattutto dallo stremato Edgardo nuovaiorchese, dimostra ancora una volta l’inconfutabile sfascio di una delle voci più belle che siano di recente risuonate nei teatri d’opera: fiati corti, mezzevoci spoggiate e falsettanti, gli acuti ridotti a grida, non di rado anche stonate (e per un tenore che si era fatto un nome con titoli come Favorita, il risultato è sorprendente).
Inutile cercare finezze di fraseggio in una voce così spossata, che annaspa nell’Invocazione alla natura e ulula dal secondo atto in poi. Persino il poema di Ossian, unico momento in cui il tenore cerca un minimo sindacale di colori, si risolve nell’ormai abituale spettacolo della rana che volle farsi bue, trasformando il gentile poeta in un Canio della più profonda provincia, che nel quadro finale sembra aver perduto, oltre alla pace dello spirito, anche quella dell’intestino.
Insomma le brillanti intenzioni del Filianoti lettore di Goethe, così come emerse nel colloquio con lo speaker radiofonico all’intervallo, non si traducono in interpretazione vocale a causa di una tecnica di canto mai stata salda (la nota aleatorietà del settore acuto) e che, con il progressivo venire meno della dote naturale, mostra con sempre maggior evidenza le proprie lacune. Il tutto per l’edificazione di un pubblico che, manco a dirlo, applaude beatamente tanto Filianoti quanto la sua compagna di strada Sonia Ganassi, che nei primi due atti si cava d’impaccio accennando e sussurrando (ma la povertà del registro grave e gli acuti stiracchiati sono evidenti fin dal duetto finale del primo atto). Alla grande scena del terzo atto, la voce suona assai magra e opaca, oltre che tremula, sommamente inadatta a tradurre in musica la composta, ma non esangue, disperazione di Carlotta.
Nel duetto con il tenore la Ganassi, stimolata dal vociante partner, si lancia all’inseguimento emettendo strida aquiline che sfuggono a ogni classificazione, oltre che a ogni controllo. Nel quadro finale si riaffaccia, a congedarsi dal pubblico, la bambina udita nella prima parte, ma come ulteriormente svuotata di energie, come provano i moribondi acuti. I migliori auguri alla signora per i suoi prossimi impegni, Eboli ed Ermione: ruoli che esigono, oltre a sopraffine doti vocali, un temperamento drammatico infinitamente superiore a quello richiesto dalla trepida figlia del Podestà e, a contraccambio, offrono un numero infinitamente superiore di occasioni propizie all’urlo inconsulto.
Accanto a simili colleghi, l’Alberto di Giorgio Caoduro assicura almeno una parvenza di canto e un’accettabile compostezza di accento: peccato solo per la poca incisività del fraseggio, il cui accorto uso renderebbe più sopportabile un personaggio monocorde come pochi altri. Adriana Kucerova è una squittente Sofia. Non pervenuti i comprimari.
Alain Guingal non va oltre la routine: l’orchestra suona discretamente ma il pathos resta sulla carta. Del resto, con protagonisti del genere, arrivare a fine recita è già un lusso, e di questo va reso merito al concertatore.
Chiudiamo questa mesta cronaca con alcuni ascolti, reperto di epoche più o meno remote, che ci consegnano, assieme a tanto rimpianto, pure un raggio di speranza: non sempre canto e interpretazione vanno disgiunti. Come ci ricorda Kozlovsky, non è coi rantoli o coi singhiozzi che si evoca il soffio della primavera, ma con la purezza e la flessibilità della linea di canto, doti che solo una voce perfettamente sul fiato può assicurare.
J. Massenet: Werther
Atto III
Aria della lettera – Teresa Berganza, Martine Dupuy, Elena Obraztsova, Giulietta Simionato, Ebe Stignani
Ah non mi ridestar – Ivan Kozlovsky
Viaggio spesso per lavoro.
Ieri sera nel tratto in auto dall’aeroporto a casa accendo la radio e ascolto metà del secondo atto di Werther con Filianoti e la Ganassi, da Genova. Uno che legge il Corriere della Grisi può pensare che ci sia un livello di ascolti precedente e di attenzione molto elevato da cui giudizi estremamente rigorosi.
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> Dunque: orchestra fracassona, Ganassi fuori tempo, pessimo francese, fraseggio indecoroso; Filianoti scandaloso: stimbrato, in difficoltà sui primi acuti, invece di cantare piano e di cercare un Werther intimista cerca di rifarsi (nella sua mente) ad interpretazioni sulla linea Thill, con il risultato che la chiusa di Lorsque l’enfant…è spaventosa. Finisce l’atto, mi attendo una salva di buuu, applausi scroscianti e chiamate per Filianoti; poi un analfabeta di Rai tre intervista Filianoti in diretta, e questo si mette a pontificare sugli aspetti freudiani del comportamento di Werther…
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> Ridateci Flaviano Labò, Gastone Limarilli, Gianni Jaia….e non tocchiamo il leggendario Mario Filippeschi!
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Lo sfascio vocale di Filianoti non stupisce affatto, ma quello della Ganassi è al contempo stupefacente e inspiegabile, dopo le buone premesse di qualche anno fa… è da tempo che non la ascolto: è questo il suo standard attuale?
Grazie e a presto
Non ho avuto la fortuna (o la sfortuna) di assistere al Werther di Genova del 1 aprile 2008; perciò non sono qui per dire la mia in proposito, ma vorrei solo cercare di capire dove sta la verità.
Nel Vostro ottimo sito ho letto una recensione firmata Antonio Tamburini, dove i due protagonisti principali vengono completamente stroncati, recensione che a suo tempo ho preso per buona.
Ora però, nell’ultimo numero (n.226 maggio 2008) della rivista mensile “L’Opera”, leggo una recensione a firma Giancarlo Landini, dove i due protagonisti vengono magnificati dal recensore.
Le due versioni sono talmente dissomiglianti da far pensare che i due abbiano visto due spettacoli completamente diversi, il che purtroppo non è.
Vorrei soltanto chiedervi, c’è onestà intellettuale in questi scritti, o costoro si occupano solo di indirizzarci dove il loro interesse li porta.
Dove sta la verità?
Grazie per lo spazio.
Piersa
La verità sta nella testimonianza radiofonica di quella recita. Il pubblico può e deve *sempre* controllare quello che scrivono i critici, confrontandolo con quanto effettivamente accaduto in teatro.