E’ un diffuso assillo di chi oggi metta in scene un lavoro melodrammatico offrire al pubblico uno spettacolo che sia primo spettacolo con ciò credendo di rispettare la volontà dell’autore. Autore il cui compito, magari, fu quello di sistemare e risistemare un certo lavoro musicale per compiacere ora un cantante, ora un teatro e le prassi esecutive e che, magari, diresse e concertò più volte la versione rivista e corretta.
I rifacimenti erano il destino obbligato per opéra comique ed opéra lyrique, che per varcare i confini di Francia dovevano essere tradotte (il più delle volte in Italiano, talora in tedesco) e musicate nei parlati, tipici solo di quel teatro.
Le versioni di Fra’ Diavolo, Faust o Mignon ampliate e rimaneggiate, fiorite, munite di balli, il più delle volte da Londra, presero a girare per l’Europa e le Americhe e divennero le versioni a tutti note ed ovunque rappresentate.
Soprattutto per i melodrammi nati all’Opéra comique l’operazione di make up teneva conto sempre sia delle maggiori capacità canore dei cantanti prescelti fuori del teatro d’origine sia delle orchestre costituite di più elementi. Celestine Galli-Marie, prima Mignon, era cantante di mezzi tecnici e vocali tutt’altro che eccelsi ed unici.
Per completezza: la traduzione e l’inserimento di altri numeri fu riservato anche ai grand-opéra. In primis il caso noto a tutti degli Ugonotti, rimpolpati per la rappresentazione londinese del 1848 o il Profeta per quella dell’anno successivo dove il ruolo della protagonista femminile passò da Pauline Viardot, mezzosoprano-contralto a Giulia Grisi, soprano di agilità.
Quindi non vi è in linea di principio nessuno scandalo, nessuna violazione di sacri dogmi per una Carmen, che tradotta venisse rappresentata con i dialoghi musicati e debito raggiusto vocale ed orchestrale. Perchè se scandalo ha da essere, dovrebbe investire anche Faust o Mignon o Pescatori di Perle.
Se, poi, l’autore del rimaneggiamento non è Bizet, nessuno scandalo, perché, purtroppo, il maestro morì pochi mesi dopo la prima e anteriormente ogni rappresentazione fuori dell’Opéra-Comique.
Il problema, se mai, è che Carmen dal passaggio da Parigi ai vari teatri del mondo, italiani più di tutto, subì nel volgere di un trentennio un ben più radicale riesame e modifica della vocalità e della modalità esecutiva. Divenne il prototipo di opera verista o naturalista in contrasto con il melodramma romantico ed aulico.
Credo, però, che la colpa non sia solo o affatto degli esecutori del primo trentennio (e aggiungiamo che, pure, il famosissimo saggio di Nietzsche ha offerto il suo vasto contributo) e di quello a seguire, ma che la stortura, se di stortura si può parlare, nasca dall’opera stessa.
Da una storia, quella di Carmen che, seppure addolcita rispetto al testo letterario, di Mérimée, ha un tasso drammatico e di vero sconosciuto agli altri esemplari di opéra comique, il cui paradigma può essere Mignon, con lieto finale, mentre in Carmen scorre sangue e molto. Ma prima del sangue e sino al sangue era scorsa una carica erotica ed una sensualità nell’incontro-scontro fra il brigadiere e la zingara-sigaraia, fra quest’ultima ed il bel torero e fra i due rivali, assolutamente ignoti alla tradizione precedente.
Non che l’opera non conoscesse sesso e seduzione, omicidi e gelosia: mai, però, erano state portate in scena le passioni e le delinquenze del popolo. Per la prima volta, complice la fonte letteraria prescelta, nell’opera tragica si abbandonano personaggi e luoghi della Storia per rappresentare quelli della cronaca, del quotidiano. Insomma dal Louvre ai valichi dei Pirenei. Dalla dama di rango, magari falsamente ritrosa, come la convenienza sociale imponeva, ad una zingara, sigaraia e spinta dalla sensualità, non certo rosa da tremendi conflitti interni nelle proprie scelte di vita.
Solo Traviata aveva avuto un impatto così forte, anche questa nonostante il pesante addolcimento dei primi allestimenti. Non per nulla nei primi anni di rappresentazioni spesso famose Violette vestirono i panni di Carmen. Per questo proponiamo la scena delle carte di Gemma Bellincioni, prima Santuzza, ma celebrata Violetta. Difficile crederlo dopo l’ascolto.
E a questo aggiungiamo la strada che il melodramma come scelta di argomenti, e la vocalità, per conseguenza, presero – è scontato – a parlare di Carmen come archetipo dell’opera e della vocalità verista.
Però ci vogliono i distinguo. Nella semplificazione si è voluto far credere sempre verificata l’equazione Carmen in italiano volgare, urlata, con acuti tenuti a perdifiato e la forzata, costante ricerca del colore spagnolo, per contraltare la Carmen in francese, raffinata, introversa, rispettosa della prima rappresentazione (anche se siamo al Met o alla Scala), con linea di canto immacolata. Alla Carmen da marciapiede contrapponiamo quella da famosa e raffinata casa di piacere parigina.
Anche questo falso. Basta sentire la Carmen di Agnes Baltsa in francese o quella della Supervía in italiano, piuttosto che il don José di Domingo in gallico idioma contrapposto a quello in tedesco di Jörn o di Tauber per trovare linea di canto quanto meno castigata e rispetto dei segni di espressione nei cantanti che non eseguono l’originale francese.
Questo in linea di principio perché i metodi di canto e gusto di una Bellincioni, ovviamente, o anche di Emmy Destinn molto riportano a Santuzza, quelli della opulentissima voce di Armida Parsi Pettinella ad una Ulrica (volutamente abbiamo evitato la Saloon Carmen paradigmatica di Maria Gay) dai mezzi volutamente doviziosi.
La Destinn e la Parsi Pettinella, oltre tutto, ci ricordano che Carmen, per la sua scrittura vocale non certo particolarmente impegnativa, conviene sia a soprani lirico spinti quanto a mezzosoprani-contralti. Preciso che soprattutto negli Stati Uniti è amplissima e documentata la tradizione della Carmen soprano a partire da Lilli Lehmann sino a Leontyne Price, passando per la Jeritza e la Ponselle.
Però… però Gianna Pederzini e Conchita Supervía (quest’ultima, benché accompagnata dalla taccia di essere voce da zarzuela, era in realtà un soprano lirico) sono insinuanti, piccanti e sensuali come sarà trent’anni dopo Teresa Berganza, la più completa Carmen in stile Opéra-comique.
E quanto ad Ebe Stignani, che del ruolo non fu certo ritenuta interprete, ma al più esecutrice di mezzi straordinari e di linea di canto controllatissima non possiamo non ammirare la compostezza vocale esente, persino, nel finale da ogni caduta di gusto. In questo la Stignani è modernissima, poi possiamo discutere se sia o meno Carmen.
Osservazione analoga per la Carmen della Cossotto, che ha sempre esibito il proprio opulento mezzo vocale. E lo possiamo dire a prescindere dalla lingua in cui cantava, atteso che la Cossotto, come la Simionato, affrontò entrambe le versioni dell’opera. La Simionato, però, salvo che non cadesse in eccessi di gusto (ed è documentato capitassero più in italiano che in francese) era, comunque, sorvegliata e castigata rispetto al gusto imperante e regge il confronto con accreditate Carmen come Grace Bumbry e la prima Verrett.
Il caso si presenta analogo, anzi accentuato, con il protagonista maschile. Che Gigli ecceda è scontato (fra l’altro non era più freschissimo all’epoca della registrazione) anche se il legato al fiore è esemplare.
Certo che l’aria diviene un interessante luogo di confronto della tradizione interpretativa e del mutare del gusto.
Chi esaminasse i numerosi ascolti tenorili potrebbe facilmente rilevare come il verismo in senso negativo di Carmen sia completo e dimostrato negli ultimi anni della tradizione della rappresentazione dell’opera tradotta.
Fernando de Lucia, che all’epoca era un considerato antesignano del canto nuovo, canta un fiore elegante e raffinato, e come lui Karl Jörn, che per giunta sfoggia un facilissimo e francesissimo misto sul si bem di “libero schiavo amor mi fe”. Nota prevista in spartito pp, indicazione che credo sia mancata da almeno una quarantina d’anni, ossia dalle ultime performance di Franco Corelli.
Rispetto ai don José che non legano, che spacciano per interpretazione suoni artificiosamente gonfiati ed una linea di canto limitata a forte e mezzo forte, de Lucia e Jörn sono un altro pianeta.
Tenuto conto della tecnica primordiale di registrazione del disco di Jörn la differenza emerge anche nel raffronto fra Del Monaco e il tenore lettone, protagonista della prima registrazione in lingua tedesca.
Alle prese, poi, con la stessa aria tenori come Patzak, Pertile e Fleta sono sfumatissimi, rispettano i segni di espressione previsti dall’autore ed in alto emettono suoni squillanti e timbrati. Possiamo, poi, rilevare che la linea di canto di Fleta sia molto più ricercata di quella del coetaneo Pertile; entrambi, però, rendono il conflitto interiore di don José. Entrambi sono, a differenza di quanti oggi affrontano il ruolo del giovane scriteriato brigadiere, interpreti. A prescindere dalla lingua in cui cantano.
Bizet – Carmen
Atto I
Habanera – Elena Theodorini, Conchita Supervía, Ebe Stignani, Irina Arkhipova
Votre mère avec moi sortait de la chapelle – Elisabeth Rethberg & Richard Tauber
Séguedille – Giulietta Simionato, Irina Arkhipova, Fiorenza Cossotto
Atto II
Les tringles des sistres tintaient – Armida Parsi-Pettinella, Giulietta Simionato, Irina Arkhipova
Votre toast je peux vous le rendre – José Mardones, Antonio Magini-Coletti, Titta Ruffo
Je vais danser en votre honneur – Armida Parsi-Pettinella
La fleur que tu m’avais jetée – Fernando De Lucia, Karl Jörn, Jacques Urlus, John McCormack, Hipólito Lázaro, Julius Patzak, Aureliano Pertile
Non, tu ne m’aimes pas – Giulietta Simionato & Franco Corelli, Irina Arkhipova & Mario Del Monaco
Atto III
En vain, pour éviter les réponses amères – Gemma Bellincioni, Gianna Pederzini, Ebe Stignani
Je dis que rien ne m’épouvante – Elisabeth Rethberg, Mirella Freni, Renata Scotto
Atto IV
C’est toi?…C’est moi! – Emmy Destinn & Karl Jörn, Gianna Pederzini & Renato Zanelli, Ebe Stignani & Beniamino Gigli, Irina Arkhipova & Mario Del Monaco
Mi sono sempre chiesto quale influsso abbiano le parole sulla composizione musicale.
Dovendo musicare un testo italiano (di Antonio de Lauzières, tanto per stare nella realtà) che Carmen ci avrebbe propinato, il buon Bizet? Identica, nota per nota, a quella composta sul testo di Halévy-Meilhac?
Dopodichè, le “versioni ritmiche” fanno miracoli, magari, oppure no, chissà…
Lohengrin italiano (Pertile docet) non è da buttare… ma un Tristan nella nostra lingua reggerebbe l’urto?
Che la lingua in cui è scritto un libretto influenzi il compositore, non c’è dubbio.
Tuttavia, perché un’opera “funzioni” in traduzione, servono cantanti adeguati, più che mirabili versioni ritmiche.
E l’Isotta della signora Callas e la Brangania della signora Stignani – primi esempi che mi vengono in mente sul titolo citato – mi sembra siano lì a dimostrarlo.
Sbaglio, o da quel “serafiniano” 1947 nessuno si azzarda più a proporre un Tristan in italiano? Solo perchè di Callas non ce n’è un’altra?
Invece, pochi anni fa ho assistito ad un Lohengrin “italiano” al Regio di Parma che non mi ha affatto deluso, pur con Giuliacci al posto del leggendario Pertile…
(Premetto che son di parte, il mio hobby sono proprio le versioni ritmiche di testi musicali)
Io sono sempre a favore delle versioni ritmiche delle opere…
Se queste possono servire a svolgere il fondamentale compito di far “conoscere” l’opera allo spettatore.
Se sono fatte _bene_ poi non fanno troppo rimpiangere l’originale.
Ovvio che poi se uno conosce il francese o il tedesco, o conosce a memoria l’intera opera, preferisce ascoltarsela in originale perchè.
A me piace molto l’opera, pero’ essendo quasi totalmente a digiuno di musica prediligo i testi e la drammaturgia.
Vada per il francese…. ma ascoltare un’opera in tedesco…. non ce la faccio!
Io ho appena aperto un blog dove appunto presento alcune delle mie versioni ritmiche di canzoni che ho fatto negli ultimi 4 o 5 anni…. di musical, ma il mio sogno sarebbe riuscire a presentare in italiano la Zarzuela….e soprattutto il Bànk Ban…. ingiustamente ignorato perchè scritto in una lingua (l’ungherese) che pochi conoscono….