Non furono esclusivi tenori del Met, palcoscenico che, anzi, configurò per tutti una parentesi della carriera per essere, invece, indiscussi protagonisti nei maggiori teatri della Mitteleuropa, ossia Monaco, Berlino, Karlsruhe e Vienna con puntate al Met ed al Covent Garden. Se si eccettua la partecipazione di Slezak alla rappresentazione di Tannhäuser del 1905 alla Scala, non frequentarono alcun teatro italiano e le loro registrazioni non furono diffuse in Italia sino all’avvento delle ristampe dapprima in vinile e poi in cd, sicchè, anche la critica più attenta alla storia della vocalità spesso ne ha avuto una conoscenza limitata.Inoltre, benché coetanei di Caruso o addirittura di poco più giovani, furono tenori ottocenteschi per la scelta del repertorio e per gusto interpretativo.
I rapporti con il Verismo, che tanto deve a Caruso e cui Caruso molto deve, furono assolutamente sporadici e la loro interpretazione assolutamente svincolata da quella poetica. Il loro repertorio fu imperniato sul grand–opéra, Wagner (particolarmente Jörn, Urlus e Knote), molto repertorio francese post grand-opéra; soprattutto per Slezak, Jörn e Jadlowker il repertorio italiano, spesso in lingua originale. Tutti cantarono, inoltre, il ruolo di Tamino del Flauto magico ed Jadlowker, esimio virtuoso, anche il Ratto dal Serraglio. Quanto a Wagner va precisato che il solo Urlus, nel 1911 e 1912, si esibì a Bayreuth, a riprova che, nel luogo ufficialmente deputato alla corretta divulgazione del verbo wagneriano, i migliori cantanti non erano graditi ed apprezzati. Donde il legittimo dubbio che l’autentico canto wagneriano sia ab origine differente da quello proposto ed imposto nella “celeste Jerosolima” creata dal Maestro. Occasionalmente, poi, affrontarono il repertorio verista, con predilezione per la parte di Canio dei Pagliacci, modello del dramma e della vocalità verista, ma per i cantanti mitteleuropei l’unica opera contemporanea cantata da de Reszke, loro cantante di assoluto riferimento. Repertorio e conseguenti registrazioni offrono la possibilità di una dettagliata immagine di tutti questi cantanti e di un modo di affrontare il melodramma, irrimediabilmente perduto. Purtroppo perché il loro era un approccio non solo tecnicamente inappuntabile, ma di completezza musicale ed interpretativa, ormai perdute.
Oggi, dopo la Rossini renaissance, lo stupore maggiore e la curiosità maggiore la desta Hermann Jadlowker per l’esecuzione delle agilità di forza sia nell’aria di Almaviva del Barbiere, già proposta nel primo numero di queste riflessioni, sia, e soprattutto, per quella dell’Idomeneo eseguita in tedesco, ma con tecnica e gusto italiani.In generale dubito che le registrazioni siano in grado di rendere piena giustizia al tenore lettone, il cui timbro, paragonato, proprio dopo le apparizioni al Met, a quello di Caruso del periodo aureo, appare, invece, piuttosto anonimo e non certo peculiare, aggravato da un certa fissità della gamma acuta.
Jadlowker, però, oggi strabilia per altri aspetti della propria arte. Nessun tenore può competere con questo cimelio, per l’ampiezza e la facilità con cui sono sostenute la scrittura centrale da vero baritenore, il mordente lo slancio e la precisione delle esecuzione dei passi di agilità, che impongono all’esecutore ogni forma di ornamento, trilli compresi. Nel raffronto con una delle maggiori star del tempo, Frieda Hempel, il tenore, nel duetto primo di Traviata, eseguendo sul “di quell’amor” una variante acuta – credo di provenienza verdiana o autorizzata da Verdi- che tutte le grandi Violette interpolavano, ma alla grande aria ricorda i tenori della Rossini renaissance, assolutamente pari alle colleghe nel reclamare il diritto e il dovere di fare sfoggio di perizia tecnica.
Jadlowker, nonostante la voce scura e brunita (e con il limite degli acuti fissi), monta in cattedra, come un tenore del secolo XIX, quando affronta il grand-opéra. Nel duetto con Margherita è l’unico tenore che esegua integralmente le agilità e rivaleggi con la partner di elezione Frieda Hempel. L’esecuzione del duetto è un viaggio nel tempo; ci offre un’esecuzione cui siamo totalmente disabituati per la compresenza e dello slancio e la forza dell’agilità congiunti al languore, che la situazione, per certo erotica, impone, nonostante la ambientazione storica.Nella grande aria del primo atto degli Ugonotti, confronto per tutti i grandi tenori sino agli anni venti del XX secolo (qui eseguita in francese), Jadlowker, senza esibire il misto fascinoso di Slezak, allo “spectacle divin” sfoggia una paradisiaca smorzatura su uno scomodo mi bem e coglie il senso estatico del brano smorzando alla perfezione il sol acuto di “e le dicea”, sino ad arrivare alla cadenza, che come si conviene ad un grande virtuoso è debitamente rimpolpata rispetto al testo ed alla tradizione degli altri tenori.
La dimostrazione della grandezza del vocalista è nell’esecuzione dell’aria del terzo atto di Fra Diavolo di Auber (titolo che attirò tutti i maggiori tenori sino a Lauri-Volpi e Pertile) dove il tenore lettone canta, quando il testo gli chiede di imitare la voce femminile, con un falsetto penetrante e dolcissimo prendendosi, poi, il lusso di ritornare alla voce maschile senza presa di fiato e senza compromettere la linea musicale. L’esibizione del grande cantante comprende, nella sezione conclusiva dell’aria, dapprima sillabati e, poi, tutti i tipi di figure ornamentali, scale, volate e arpeggiati.Eppure Jadlowker è lo stesso cantante, che esegue con eleganza, precisione, accento ispirato l’addio al cigno del Lohengrin. Un protagonista wagneriano, che canta lega e fraseggia come i personaggi di Meyerbeer. Anche perché l’idea della discendenza di Wagner dal grand-opéra è rimarcata costantemente in questi cantanti.
Leo Slezak, che nella propria epoca era ritenuto un grandissimo cantante, dotato di presenza scenica per la statura gigantesca, anche se attore molto statico, ascoltato nelle registrazioni di cento anni or sono appare uno straordinario attore vocale. L’attore vocale è quell’artista che, all’opposto del cantante attore, nulla deve dei propri effetti espressivi ad elementi differenti dalla voce e dalla tecnica di canto. Per comune giudizio attore vocale per eccellenza fu Beniamino Gigli. Slezak ne è un precedente ancor più clamoroso e completo, in quanto nelle registrazioni non indulge a qualcuno degli effetti, che, secondo alcuni, offuscano la fama di Gigli. Nel volgere di dieci battute l’amoroso del grand-opéra è differente da quello di Verdi e da quello dell’opera francese, il personaggio wagneriano è sacrale ed ispirato come compete ad semidio.
L’attore vocale, dicevamo. Le scelte di ascolti cercano di esemplificarlo.Cantante del grand-opera alle prese con Raoul de Nangis, Slezak cambia colore ed accento in ogni brano. All’entrata (“Qui sotto il cielo di Turenna”) colpiscono gli acuti penetranti e squillanti. E’ la rappresentazione del nobiluomo fra i suoi pari. Arrivato alla famosissima aria Slezak cambia: è sognante ed estatico, oltretutto con una voce grande ed ampia. Nelle prime parole della sezione conclusiva del recitativo esibisce il “misto” quello di Gigli e, prima ancora,di Masini. Nel corso dell’aria, che insiste sulla zona del cosiddetto passaggio, la voce man mano che sale acquista proiezione e squillo. Nella cadenza, senza essere un virtuoso compiaciuto alla Jadlowker, esegue quanto previsto.
A differenza dei coevi tenori italiani o di tenori italiani, di identico gusto e repertorio, Slezak è molto meno arbitrario nei tempi, salvo alla sezione conclusiva dell’aria dove accelera e allarga con grande fantasia. Fantasia inspirata dall’autore stesso che sui vari “ognor” della chiusa prevede diminuendo e crescendo, cui Slezak aggiunge, appunto, rallentando ed accelerando, proponendo, poi, una cadenza ben più articolata di quella di un mitico Raoul come Giacomo Lauri Volpi.
Nel celebrato “duettone”, già proposto nella sezione centrale e conclusiva, alla frase “ dillo, ah dillo” Slezak rispecchia l’indicazione “con tenerezza” per, poi, squillare sugli acuti. Pur eseguendo la versione al si bem alla cadenza “ ah vieni” anziché il re bem Slezak smorza e rinforza la nota con irrisoria facilità. Alla sezione finale, quando all’estasi amorosa subentra la certezza della fine tragica ed imminente, il colore della voce, prima ancora che l’accento, netto e scandito, muta.
Slezak, però, non è solo un tenore da grand-opéra: è un grandissimo interprete di Verdi, più vario nell’accento della stragrande maggioranza dei tenori degli ultimi cinquant’anni e molto meno arbitrario di tutti i suoi coetanei, specie se di lingua italiana o spagnola. Il che non guasta al gusto attuale, ove compensato da una resa interpretativa.
Il colore della voce di Manrico, presago come Raoul della fine imminente, è, però, differente da quella dell’eroe di Meyerbeer. Slezak rispetta tutti i segni di espressione previsti da Verdi, sfoggia una espressivissima forcella sul “braccio avrò più forte”, cambia – ecco l’attore vocale – colore della voce per rispettare l’indicazione “con dolore” prevista su “ma pur se nella pagina”, con irrisoria facilità attacca, a mezza voce, la seconda sezione dell’aria dove (a differenza di Urlus e di Jadlowker) omette i trilli previsti da Verdi, ma inserisce un bellissimo pianissimo e una puntatura molto espressiva. Opta stranamente per una chiusura priva della cadenza di tradizione.
Nei panni del duca di Mantova, nessuna volgarità, nessun eccesso di ormoni ed istinto predatorio, che connotano i tenori, specie di genere spinto, nei panni dello sciagurato seduttore. Attacca la ballata con un suono dolce e levigatissimo (seduttore e perverso, ma sempre gran signore). Rispetto alle coeve esecuzioni dei tenori italiani gli arbitri sono pochissimi, gli acuti immascheretissimi e squillanti e quando inserisce un rallentando su “ non v’è amore” la scelta agogica si rivela azzeccatissima sotto il profilo espressivo.
Un attore vocale coglie nel colore della voce la differenza fra l’innamorato Raoul e il Riccardo, protagonista del Ballo. Ovvio che Slezak rispetti tutte le indicazioni dell’autore fra cui un paio di “dolcissimo” tutt’altro che agevoli per la zona in cui batte la scrittura e che non mostri difficoltà di sorta in una scrittura che impegna soprattutto il passaggio. Basta il solo colore della voce per dimostrare che fra Raoul e Riccardo passano vent’anni, ossia passiamo dagli albori del romanticismo alla fine di quella stagione artistica. Oltre al rispetto assoluto dei segni di espressioni bastano a Slezak un amorosissimo misto sul do centrale di “gemmata festa” e un rallentando su “la mia speme” per dimostrare la banalità e la piattezza esecutiva di quasi tutti i tenori venuti dopo di lui. Il particolare riferimento ad un recente Riccardo si impone per rispetto alla musica.
La maggior sorpresa di Leo Slezak interprete è nelle arie di Ernani e di Romeo dall’opera di Gounod. L’idolo dei tenori mitteleuropei era de Reszke, Romeo storico. Non so se Slezak si fosse ispirato a quella interpretazione, tenuto conto che le caratteristiche vocali erano differenti. Il tempo prescelto è lentissimo, il timbro dolcissimo, la dinamica sfumata, l’utilizzo di forcelle continuo. Pensiero musicale dell’autore e realizzazione del tenore moravo colgono il momento del risveglio dopo la notte d’amore ed il proseguire anche nel canto di quell’estasi.
Nei panni di Ernani l’esecuzione di Slezak per aderenza alle prescrizioni dell’autore e doti vocali e tecniche mette la distanza fra il tenore moravo ed ogni esecutore dell’aria successivo. Nessun Ernani alla fine del recitativo rispetta e realizza come Slezak la prescrizione morendo sulla parola “perduto”. Verdi prevede nell’aria una serie di forcelle che vengono eseguite tutte. Quando Verdi prescrive sulle parole “il vecchio Silva etc” declamato l’accento diviene subito scandito e vibrante e subito dopo alla prescrizione “adagio con espressione” sul punto coronato Slezak esegue un pianissimo dolce e penetrante, mentre quando la prescrizione “dolce” sul “d’affanno morirò” fa scendere la voce dal fa al do, Slezak amplifica il concetto dell’autore con un rallentando. Amplificare il concetto dell’autore: questa è la sigla, il messaggio, credo, che ancor oggi emerge dai cimeli di questi ed altri cantanti e che, duole per chi invita a glorificare l’attuale scarno presente, rende affascinante ed unico quel mondo e realisticamente triste il giudizio per l’attuale.
Hermann Jadlowker
Auber – Fra Diavolo – J’ai revu nos amis
Meyerbeer – Les Huguenots – Plus blanche que la blanche hermine
Meyerbeer – Les Huguenots – Beauté divine, enchanteresse (con Frieda Hempel)
Mozart – Idomeneo, re di Creta – Fuor del mar
Offenbach – Les Contes d’Hoffmann – Chanson de Kleinzach
Verdi – La traviata – Un dì, felice, eterea (con Frieda Hempel)
Wagner – Lohengrin – Mein Lieber Schwan
Leo Slezak
Gounod – Roméo et Juliette – Ah, lève-toi soleil
Meyerbeer – Les Huguenots – Sous le beau ciel de Touraine
Meyerbeer – Les Huguenots – Plus blanche que la blanche hermine
Meyerbeer – Les Huguenots – Oui, tu l’as dit (con Elsa Bland)
Verdi – Ernani – Mercè diletti amici…Come rugiada al cespite
Verdi – Rigoletto – Questa o quella
Verdi – Rigoletto – La donna è mobile
Verdi – Il trovatore – Ah sì, ben mio
Verdi – Un ballo in maschera – La rivedrà nell’estasi