Tutti possiamo cadere ammalati, tutti possiamo avere problemi di salute, ma attualmente sembra che i cantanti d’opera siano prossimi allo sterminio o alla morte per morbo epidemico.
Perché di morbo epidemico si tratta, ma con la differenza che i vari morbi ,ormai diffusi epidemicamente, non si trovano repertai sui manuali di medicina, ma altrove.
Altrove ossia:
1) nella assoluta carenza e precarietà tecnica di tutti i cantanti. Le modalità del canto professionale, che ha sempre assicurato lunga carriera, certezza e costanza di prestazioni, impongono all’origine esatta cognizione della tecnica di canto e, nel quotidiano, studio costante. E’ falso quello che oggi cantanti e loro reciperatores vanno sostenendo, ossia che si canti troppo. Basta scorrere la cronologia non dico di cantanti storici, ma di soli buoni professionisti operativi sino agli anni ottanta per vedere smentito il pretestuoso assunto.
2) La precarietà tecnica che nel periodo di formazione dà luogo ai risibili risultati ricordati ancora sabato scorso da una professionista del calibro di Luciana Serra in un’intervista televisiva, porta in carriera a scelte assolutamente deleterie. Cantanti che hanno timbro, peso e colore del soprano leggero che sull’errato presupposto che una voce simile, ma di solidissima capacità tecnica abbia cantato un Donizetti tragico, accettano la proposta per, poi, abbandonarla. Con correttezza professionale alla vigilia delle prove, con scorrettezza a prove cominciate, dalle quali sono anche state latitanti.
Certo è documentato ad esempio che una Marescialla cantasse la settimana dopo Annetta di Crispino e la Comare, ma quella cantatrice rispondeva al nome di Frieda Hempel. Basta leggere quel che ne scrive Richard Strauss, anche con riferimento ai compensi, o sentire le sue registrazioni, ché la precarietà del suono non intacca la saldezza della professionista.
3) Il comportamento è per certo propiziato da chi avrebbe l’incarico di scelte artistiche ed, invece, come pretende acquistare aragoste in mezzo al deserto dei Gobi e, quindi, pensa a qualche titolo d’opera ( e spesso dimostrando fantasia e cultura da bigini della storia dell’opera ) per poi andare a chiedere agli agenti di turno nel proprio ufficio un nome da applicare a quel titolo.
Due volte sbagliato.
Primo perché le parti di un melodramma sono state scritte per un certo cantante ai tempi della composizione ed oggi ha senso e significato riproporle solo se disponibile chi possa quelle parti eseguire correttamente; ossia parte scritta per un cantante, parte riproposta per un cantante.
Secondo perché gli agenti, che fanno il loro mestiere ossia “piazzano” cantanti, non sono disposti a cedere alcunchè ad altri, anzi. E quindi offrono cantanti inadeguati per i ruoli pur di assicurare alla loro agenzia la presenza in quel teatro. E poi, magari convincono lo sciagurato o la sciagurata di turno che “Verdi aveva una sua idea per la Abigaille, diversa da quella sempre proposta”. Ovvio che la sciagurata avrebbe con riferimento al repertorio verdiano buona disposizione per cantare Gilda o al più Desdemona, ma si deve presidiare il teatro e non cedere nulla a costo di distruggere il cantante, a costo di… cancellare. E quando si cancella si deve farlo solo all’ultimo, sì da tenere in ostaggio il teatro e la relativa direzione artistica e d’orchestra, che, avendo scelto, non può rimangiarsi la scelta, ovvero perdere la faccia con l’unica arma in suo possesso: la protesta.
Istituto che negli ultimi anni, per quel che è dato sapere, è stato sprecato alcune volte per servire le major del disco (l’episodio fa parte della storia del disco), altre contro il principio che “non si spara sulla croce rossa” ed altre ancora per rifarsi di proteste che per la legge del “si deve andare in scena” non erano state esercitate. E sarebbe stato rispettoso per musicista, pubblico, fama del teatro e dignità, invece, esercitare.
4) Dimenticavo che nelle sciagure delle carriere e nelle loro tragiche repentine fini hanno ogni giorno di peso coloro i quali (registi, scenografi e costumisti) sono deputati alla “visualizzazione” (bel termine da collettivo teatro del carcere di Opera) dello spettacolo. Donde a rovinare ancor più le carriere abbiamo l’utilizzo della protesta per i chili di troppo che feriscono, dapprima, l’amor proprio del corpulento soprano e poi, una volta conquistata una linea da top model, le corde vocali della medesima signora, che arranca miseramente su qualsiasi titolo del proprio repertorio, e le orecchie del pubblico.
5)Orecchie del pubblico che la critica cerca di addomesticare ed educare con una costante, pressante e martellante damnatio memoriae di quel che è stato prima (cantanti o bacchette che sia), di ogni registrazione ed allestimento, distrutta e vivisezionati sull’altare del gusto e quando occorre di una strumentale filologia.
6)Lo scopo: ottenere che il pubblico non manifesti nelle forme tradizionali il proprio dissenso e se ne esca lesto lesto dal teatro. Oggi un titolo che è appassionante, che dovrebbe garantire il tutto esaurito ed estenuanti code per i pochi posti in piedi, manda a casa il pubblico con una o, se va bene, due chiamate all’intera compagnia. Lo stesso titolo trent’anni fa nello stesso teatro con un pubblico non ancora educato, anzi propenso ad esprimere il proprio pensiero quale che fosse, garantiva il tutto esaurito, continue interruzioni per gli applausi e almeno quindici chiamate anche alla prima.
A consolarci dei tempi e dei costumi, ecco da una diva di levatura storica, o quasi, maestra e regina anche dei forfait, che dei propri è stata persino capace di ironizzare, esibendosi con i divi d’oggi, e che dal proprio vezzo-vizio di cancellare, in una certa fase della carriera, lucrò persino un diffuso sopranome, un’esecuzione unica, anche perché la parte venne studiata in una settimana proprio per evitare una protesta.
R. Strauss: Der Rosenkavalier – Atto I – Da geht er hin – Montserrat Caballé