Domenica 9 marzo, ho assistito all’ultima recita scaligera del Wozzeck di Alban Berg. Nel dare un breve resoconto della serata, ne approfitto per alcune considerazioni di carattere generale, in merito all’attuale stagione lirica del teatro milanese, giunta ormai a mezza via della sua parabola, e alle linee guida sottese alle scelte culturali e di repertorio della nuova sovrintendenza. Sull’opera non voglio dilungarmi: ritengo Wozzeck uno dei capolavori del teatro novecentesco, e come tale andrebbe trattato. Lavoro di grande ricchezza e suggestione che abbisogna di un’orchestra di veri virtuosi e di un direttore di grande sicurezza e di idealità interpretative, fatte di scelte anche drastiche e di approccio problematico al testo (straordinariamente aperto ad una molteplicità di interpretazioni: da quella tardoromantica di Mitropoulos a quella più lirica e straussiana di Bohm, da quella fortemente analitica dalle trasparenze quasi cameristiche di Boulez alla visione drammatica e asciutta di Abbado).
Naturalmente è più che mai necessario l’apporto di un cast vocale all’altezza, di solidissima tecnica e rigorosa preparazione e che non rinunci mai a cantare, pur sottolineando tutte le asprezze che la scrittura richiede, oltre, naturalmente, a padroneggiare la difficile tecnica dello sprechgesang, senza sfociare nel parlato (rischio che si presenta ad ogni angolo in una partitura come Wozzeck) scorrettissimo anche in Berg. Di tutto questo solo una pallida traccia è rimasta nella recita scaligera. Non un brutto spettacolo, ma una serata senza alcun brivido (o almeno poco emozionante, e questo in un’opera di così grande tensione drammatica è peccato non veniale). Gatti si conferma, infatti – dopo il deludente Lohengrin dell’anno scorso – direttore mediocre e inspiegabilmente sopravvalutato: la sua concertazione tende a smorzare ogni tensione, ogni dramma, ogni asprezza, in una pallida melassa che, per essere ad ogni costo rassicurante e “moderata”, priva Wozzeck di quella carica vitalistica che è suo tratto peculiare. Gatti non fa disastri – come faceva in Rossini, autore saggiamente accantonato – ma non si allontana dalla tranquillità del quieto vivere: e alla fine annoia. In ciò è coadiuvato da un’orchestra svogliata e quasi scocciata o, peggio, infastidita, da certi crescendo o da certe violenze sonore. Tuttavia la musica di Berg è di tale potenza da poter benissimo emergere e coinvolgere (seppur non trascinare come dovrebbe) nonostante il pallore imposto dal direttore. Il cast vocale segue, ovviamente, i motivi del concertatore, rinunciando anche qui sia a dare rilievo all’asprezza del dramma, sia ad abbandonarsi alla sofferta passionalità di certi squarci lirici, restando a sguazzare in un limbo tiepido, comodo, ma assolutamente anonimo. Il livello complessivo è, peraltro, mediamente buono (e per la Scala degli ultimi tempi è già un felice risultato) e forse avrebbe meritato una lettura più viva e definita. Mi è piaciuta abbastanza la Marie di Evelyn Herlitzius che, pur non facendomi – ovviamente – dimenticare le interpretazioni della Lear o della Behrens, ha sfoggiato una voce dal bel corpo, forza, controllo e sicurezza negli acuti. Discreto anche il protagonista di Thomas J. Mayer (certo il confronto con Fischer-Dieskau è schiacciante, ma la sua prova è stata più che dignitosa). Con il Dottore di Markus Marquardt, si scende un po’ di livello: la voce tendeva a farsi sovrastare nei momenti di maggior pienezza orchestrale, ma il fraseggio è accurato e il personaggio ben disegnato. La nota veramente dolente è stato il Capitano di Wolfgang Ablinger-Sperrhacke: tutto quello che usciva dalla sua bocca era sgradevole, in particolare ogni volta che la voce saliva in zona acuta (e succede di frequente in quel ruolo) essa spariva nella gola e l’emissione diventava faticosissima, schiacciata e problematica. Mi sono stupito della mancanza di fischi e contestazioni nei suoi confronti: li avrebbe ampiamente meritati. Endrik Wottrich assumeva il ruolo del Tamburmaggiore, senza brillare particolarmente e risultando spesso approssimativo (davvero mi chiedo in virtù di quali meriti possa essere considerato un grande cantante wagneriano). Il breve ruolo del Pazzo è interpretato da Heinz Zednick, veterano del ruolo del Capitano. Il coro è stato molto bravo e così pure l’ensemble strumentale in scena. Regia con alcune buone idee, ma datata e bollita (le solite sedie, la solita gestualità brechtiana, la solita strizzata d’occhio al teatro dell’assurdo, la solita spruzzata di sesso, le solite luci di taglio, la solita scena fissa – in questo caso pure brutta). Semplicemente incomprensibile, sbagliata e stupida la scelta di eseguire l’opera senza intervallo alcuno. Pubblico rumoroso, impreparato (possibile che ancora si vada a vedere Wozzeck inconsapevoli dell’atonalità della musica e che si commenti tale circostanza con battute triviali?) e maleducato (commenti, risatine, parlottii). Una nota di colore: una mamma che accompagnava i due figlioli infradecenni alla Scala per la prima volta. Apprezzo l’idea di avvicinarsi all’opera fin dalla giovane età, ma forse Berg a 10 anni è sin controproducente (oltre che un fastidio per i malcapitati vicini che, immagino, avranno subito la legittima insofferenza e le lamentele dei pargoli per tutta la durata dello spettacolo). Fin qui Wozzeck. Una volta ancora, insomma, la Scala brilla per la scarsa originalità delle proposte. Quello che ho visto domenica sera, infatti, è il terzo Wozzeck nell’arco di una diecina d’anni: tre Wozzeck e nemmeno una Lulu (ma si pensi anche a Puccini, omaggiato nel 150′ anno dalla nascita con la solita Bohème). Per non parlare, poi, della scarsissima fantasia nell’assemblare i cast e del latitante potere di attrazione di direttori e registi all’altezza delle opere da allestire e della tradizione del teatro. Doti, queste, che la Scala di oggi (come quella di ieri: nulla, o molto poco, è cambiato in tal senso) condivide con la stragrande maggioranza dei palcoscenici italiani. Certo un Wozzeck, una Lady Macbeth o uno Janacek a caso mascherano queste lacune meglio di un’opera del repertorio belcantistico, ma le lacune permangono, e le sovrintendenze nostrane non le risolveranno continuando a scimmiottare i teatri germanici.
Naturalmente è più che mai necessario l’apporto di un cast vocale all’altezza, di solidissima tecnica e rigorosa preparazione e che non rinunci mai a cantare, pur sottolineando tutte le asprezze che la scrittura richiede, oltre, naturalmente, a padroneggiare la difficile tecnica dello sprechgesang, senza sfociare nel parlato (rischio che si presenta ad ogni angolo in una partitura come Wozzeck) scorrettissimo anche in Berg. Di tutto questo solo una pallida traccia è rimasta nella recita scaligera. Non un brutto spettacolo, ma una serata senza alcun brivido (o almeno poco emozionante, e questo in un’opera di così grande tensione drammatica è peccato non veniale). Gatti si conferma, infatti – dopo il deludente Lohengrin dell’anno scorso – direttore mediocre e inspiegabilmente sopravvalutato: la sua concertazione tende a smorzare ogni tensione, ogni dramma, ogni asprezza, in una pallida melassa che, per essere ad ogni costo rassicurante e “moderata”, priva Wozzeck di quella carica vitalistica che è suo tratto peculiare. Gatti non fa disastri – come faceva in Rossini, autore saggiamente accantonato – ma non si allontana dalla tranquillità del quieto vivere: e alla fine annoia. In ciò è coadiuvato da un’orchestra svogliata e quasi scocciata o, peggio, infastidita, da certi crescendo o da certe violenze sonore. Tuttavia la musica di Berg è di tale potenza da poter benissimo emergere e coinvolgere (seppur non trascinare come dovrebbe) nonostante il pallore imposto dal direttore. Il cast vocale segue, ovviamente, i motivi del concertatore, rinunciando anche qui sia a dare rilievo all’asprezza del dramma, sia ad abbandonarsi alla sofferta passionalità di certi squarci lirici, restando a sguazzare in un limbo tiepido, comodo, ma assolutamente anonimo. Il livello complessivo è, peraltro, mediamente buono (e per la Scala degli ultimi tempi è già un felice risultato) e forse avrebbe meritato una lettura più viva e definita. Mi è piaciuta abbastanza la Marie di Evelyn Herlitzius che, pur non facendomi – ovviamente – dimenticare le interpretazioni della Lear o della Behrens, ha sfoggiato una voce dal bel corpo, forza, controllo e sicurezza negli acuti. Discreto anche il protagonista di Thomas J. Mayer (certo il confronto con Fischer-Dieskau è schiacciante, ma la sua prova è stata più che dignitosa). Con il Dottore di Markus Marquardt, si scende un po’ di livello: la voce tendeva a farsi sovrastare nei momenti di maggior pienezza orchestrale, ma il fraseggio è accurato e il personaggio ben disegnato. La nota veramente dolente è stato il Capitano di Wolfgang Ablinger-Sperrhacke: tutto quello che usciva dalla sua bocca era sgradevole, in particolare ogni volta che la voce saliva in zona acuta (e succede di frequente in quel ruolo) essa spariva nella gola e l’emissione diventava faticosissima, schiacciata e problematica. Mi sono stupito della mancanza di fischi e contestazioni nei suoi confronti: li avrebbe ampiamente meritati. Endrik Wottrich assumeva il ruolo del Tamburmaggiore, senza brillare particolarmente e risultando spesso approssimativo (davvero mi chiedo in virtù di quali meriti possa essere considerato un grande cantante wagneriano). Il breve ruolo del Pazzo è interpretato da Heinz Zednick, veterano del ruolo del Capitano. Il coro è stato molto bravo e così pure l’ensemble strumentale in scena. Regia con alcune buone idee, ma datata e bollita (le solite sedie, la solita gestualità brechtiana, la solita strizzata d’occhio al teatro dell’assurdo, la solita spruzzata di sesso, le solite luci di taglio, la solita scena fissa – in questo caso pure brutta). Semplicemente incomprensibile, sbagliata e stupida la scelta di eseguire l’opera senza intervallo alcuno. Pubblico rumoroso, impreparato (possibile che ancora si vada a vedere Wozzeck inconsapevoli dell’atonalità della musica e che si commenti tale circostanza con battute triviali?) e maleducato (commenti, risatine, parlottii). Una nota di colore: una mamma che accompagnava i due figlioli infradecenni alla Scala per la prima volta. Apprezzo l’idea di avvicinarsi all’opera fin dalla giovane età, ma forse Berg a 10 anni è sin controproducente (oltre che un fastidio per i malcapitati vicini che, immagino, avranno subito la legittima insofferenza e le lamentele dei pargoli per tutta la durata dello spettacolo). Fin qui Wozzeck. Una volta ancora, insomma, la Scala brilla per la scarsa originalità delle proposte. Quello che ho visto domenica sera, infatti, è il terzo Wozzeck nell’arco di una diecina d’anni: tre Wozzeck e nemmeno una Lulu (ma si pensi anche a Puccini, omaggiato nel 150′ anno dalla nascita con la solita Bohème). Per non parlare, poi, della scarsissima fantasia nell’assemblare i cast e del latitante potere di attrazione di direttori e registi all’altezza delle opere da allestire e della tradizione del teatro. Doti, queste, che la Scala di oggi (come quella di ieri: nulla, o molto poco, è cambiato in tal senso) condivide con la stragrande maggioranza dei palcoscenici italiani. Certo un Wozzeck, una Lady Macbeth o uno Janacek a caso mascherano queste lacune meglio di un’opera del repertorio belcantistico, ma le lacune permangono, e le sovrintendenze nostrane non le risolveranno continuando a scimmiottare i teatri germanici.