Avvezzo da lunga data a dirigere il capolavoro rossiniano e per certo memore delle eccellenti prestazioni vocali di alcuni suoi colleghi di un tempo, Riccardo Chailly ha trovato il coraggio (…o forse anche l’orecchio….) mancatogli durante le prove del Trittico, dimettando metà del cast dopo la prima prova di sala. Così sono approdati a queste recite il soprano Svetla Vassileva al posto di Eva Mei ed il basso Mirco Palazzi al posto di Simone Alberghini. Licenziamento che peraltro non ha migliorato sensibilmente la qualità generale delle parti soliste dello Stabat, composizione sacra ma dal carattere sempre fortemente belcantista, more Rossinano solito.
I compromessi cui il maestro si è dovuto comunque piegare per sorreggere il cast sono stati evidenti. Una direzione su due binari nettamente separati: quello del’introduzione ( Stabat mater ) e del finale ( Amen. In sempiterna saecula ) diretti il primo con grandiosa solennità, tempo largo e quasi monumentale, il secondo con un vigore ed una foga drammatica quasi verdiane, di grande effetto, con orchestra vigorosa e grande coro.
Sul secondo binario stavano, invece, i numeri dei solisti, condizionati continuamente dalla piccolezza delle voci e dall’assenza del necessario peso drammatico: l’orchestra ha dovuto farsi piccola, se non addirittura sparire in alcuni momenti, mentre in altri ha dovuto coprire soccorrevole acuti sguaiati di qualche solista ( si vedano i do dell’Inflammatus della Vassileva ), ed altre simili accorgimenti. Sebbene collocati, come al solito, oltre la zona della buca, i solisti non sono mai riusciti a fare arrivare con facilità le loro voci assieme all’orchestra, afflitti, in generale, da mancanza di ampiezza e proiezione. E ciò ha, di fatto, tolto smalto all’esecuzione degli 8 numeri centrali dello Stabat.
In dettaglio, secondo apparizione solista:
Il tenore, Dmitri Korchak ha cantato con un certo garbo, sforzandosi di avere una linea musicale elegante, ma la voce è piccola e poco proiettata. L’esecuzione del Cuius animam meriterebbe un canto facile, con perfetto “giro” della voce, e capacità di smorzare: invece, secondo la moderna estetica ( frutto dell’imperizia tecnica, lo abbiamo già detto ) oggi và di moda far cantare la prima sezione tutta forte, e la seconda tutta in pianissimo, ossia in falsetto ( perché tali sono questi suoni collocati in bocca ), col risultato innaturale di spaccare vistosamente in due sezioni separate il brano, annientare il suono dell’orchestra, che diversamente coprirebbe il solista, e far sporgere noi dal loggione per udire….quel che in effetti non si sente. Il do diesis in chiusa, poi, una nota di petto tenuta il minimo perché nemmeno sicurissima. Insomma, una prova correttamente in linea con i modi del presente tenorile, ma ben lontana dalla regola dell’arte.
Il basso, Mirco Palazzi, è stato il migliore del quartetto dei solisti. Canta correttamente, chiaramente se non vistosamente ispirato a Samuel Ramey nel timbro. Gli mancano, però la proiezione, la sonorità e l’autorità vocale del grande basso americano, figli di altre e superiori capacità tecniche. Un Pro peccatis buono, ma privo di vigore e di slancio, e, invece, poca risonanza delle note basse nel successivo Eja, Mater, fons amoris con il coro.
Quanto alle donne, la sezione vocale più debole, sin dal duettino iniziale Quis est homo hanno da subito ben chiarito il loro stato vocale, la Vassileva vistosamente stonacchiata in zona alta, la Ganassi priva della necessaria sonorità in zona bassa. Singolarmente agitata sulla seggiola, costantemente compresa a bere e sorvegliare Chailly e colleghi ( ??!! ), la Ganassi ha affrontato l’elementare Fac ut portem con l’atteggiamento di chi si accinge a cantare la scena delle catene di Falliero o la scena del tempio di Arsace. Come già evidente al duetto ed al quartetto, Sancta Mater, istud agas, la voce è ormai molto provata e di ridotto volume. Il canto in zona centro alta è solo forte, con le contrazioni di gola di sempre, mentre apprezzabile è la musicista, che cerca di eseguire smorzature e messe di voce di grande effetto….sebbene di qualità esecutiva incerta. Troppa e preoccupante è la fatica del canto di questa Eboli, aspirante Ermione…ruoli davvero al di là di ogni limite della Ganassi!
Quanto a Svetla Vassileva, devo dire, in primo luogo, che non so quale oggettivo miglioramento alla prestazione sopranile abbia potuto offrire al maestro Chailly rispetto ad Eva Mei, perché sempre di soprano leggero si tratta…..( chissà quali saranno le effettive condizioni vocali della futura quanto improbabile Elisabetta del Devereux triestino…!!!!) Resta il fatto che la Vassileva ha canticchiato, quasi accennnando, tutta la parte sino all’Inflammatus, ove ha esibito la sua inadatta e tremula vocina da soubrette nel tragico finale. Prima ottava davvero inesistente, un canto di scarso peso drammatico, agilità inesistenti ( i trilli delle scale bellamente spazzati via senza nemmeno provarci…), due vere e proprie urla i do…..insomma, davvero pochetto.
Il pubblico è stato molto entusiasta dell’esecuzione, e persino la Grisi e Donzelli si sono emozionati nuovamente per la travolgente ed indistruttibile bellezza di questo Stabat Mater di Rossini, davvero il più genio tra i genii.
I compromessi cui il maestro si è dovuto comunque piegare per sorreggere il cast sono stati evidenti. Una direzione su due binari nettamente separati: quello del’introduzione ( Stabat mater ) e del finale ( Amen. In sempiterna saecula ) diretti il primo con grandiosa solennità, tempo largo e quasi monumentale, il secondo con un vigore ed una foga drammatica quasi verdiane, di grande effetto, con orchestra vigorosa e grande coro.
Sul secondo binario stavano, invece, i numeri dei solisti, condizionati continuamente dalla piccolezza delle voci e dall’assenza del necessario peso drammatico: l’orchestra ha dovuto farsi piccola, se non addirittura sparire in alcuni momenti, mentre in altri ha dovuto coprire soccorrevole acuti sguaiati di qualche solista ( si vedano i do dell’Inflammatus della Vassileva ), ed altre simili accorgimenti. Sebbene collocati, come al solito, oltre la zona della buca, i solisti non sono mai riusciti a fare arrivare con facilità le loro voci assieme all’orchestra, afflitti, in generale, da mancanza di ampiezza e proiezione. E ciò ha, di fatto, tolto smalto all’esecuzione degli 8 numeri centrali dello Stabat.
In dettaglio, secondo apparizione solista:
Il tenore, Dmitri Korchak ha cantato con un certo garbo, sforzandosi di avere una linea musicale elegante, ma la voce è piccola e poco proiettata. L’esecuzione del Cuius animam meriterebbe un canto facile, con perfetto “giro” della voce, e capacità di smorzare: invece, secondo la moderna estetica ( frutto dell’imperizia tecnica, lo abbiamo già detto ) oggi và di moda far cantare la prima sezione tutta forte, e la seconda tutta in pianissimo, ossia in falsetto ( perché tali sono questi suoni collocati in bocca ), col risultato innaturale di spaccare vistosamente in due sezioni separate il brano, annientare il suono dell’orchestra, che diversamente coprirebbe il solista, e far sporgere noi dal loggione per udire….quel che in effetti non si sente. Il do diesis in chiusa, poi, una nota di petto tenuta il minimo perché nemmeno sicurissima. Insomma, una prova correttamente in linea con i modi del presente tenorile, ma ben lontana dalla regola dell’arte.
Il basso, Mirco Palazzi, è stato il migliore del quartetto dei solisti. Canta correttamente, chiaramente se non vistosamente ispirato a Samuel Ramey nel timbro. Gli mancano, però la proiezione, la sonorità e l’autorità vocale del grande basso americano, figli di altre e superiori capacità tecniche. Un Pro peccatis buono, ma privo di vigore e di slancio, e, invece, poca risonanza delle note basse nel successivo Eja, Mater, fons amoris con il coro.
Quanto alle donne, la sezione vocale più debole, sin dal duettino iniziale Quis est homo hanno da subito ben chiarito il loro stato vocale, la Vassileva vistosamente stonacchiata in zona alta, la Ganassi priva della necessaria sonorità in zona bassa. Singolarmente agitata sulla seggiola, costantemente compresa a bere e sorvegliare Chailly e colleghi ( ??!! ), la Ganassi ha affrontato l’elementare Fac ut portem con l’atteggiamento di chi si accinge a cantare la scena delle catene di Falliero o la scena del tempio di Arsace. Come già evidente al duetto ed al quartetto, Sancta Mater, istud agas, la voce è ormai molto provata e di ridotto volume. Il canto in zona centro alta è solo forte, con le contrazioni di gola di sempre, mentre apprezzabile è la musicista, che cerca di eseguire smorzature e messe di voce di grande effetto….sebbene di qualità esecutiva incerta. Troppa e preoccupante è la fatica del canto di questa Eboli, aspirante Ermione…ruoli davvero al di là di ogni limite della Ganassi!
Quanto a Svetla Vassileva, devo dire, in primo luogo, che non so quale oggettivo miglioramento alla prestazione sopranile abbia potuto offrire al maestro Chailly rispetto ad Eva Mei, perché sempre di soprano leggero si tratta…..( chissà quali saranno le effettive condizioni vocali della futura quanto improbabile Elisabetta del Devereux triestino…!!!!) Resta il fatto che la Vassileva ha canticchiato, quasi accennnando, tutta la parte sino all’Inflammatus, ove ha esibito la sua inadatta e tremula vocina da soubrette nel tragico finale. Prima ottava davvero inesistente, un canto di scarso peso drammatico, agilità inesistenti ( i trilli delle scale bellamente spazzati via senza nemmeno provarci…), due vere e proprie urla i do…..insomma, davvero pochetto.
Il pubblico è stato molto entusiasta dell’esecuzione, e persino la Grisi e Donzelli si sono emozionati nuovamente per la travolgente ed indistruttibile bellezza di questo Stabat Mater di Rossini, davvero il più genio tra i genii.
Cujus animam – Jacques Urlus
Pro peccatis – Pol Plançon
Fac ut portem – Martine Dupuy
Inflammatus – Leyla Gencer, Lella Cuberli
UPDATE – All’ultima recita del 22 marzo, Sonia Ganassi, ufficialmente indisposta, è stata rimpiazzata da Veronica Simeoni. Il forfait della signora Ganassi nell’elementare parte di secondo soprano dello Stabat (affidata alla prima bolognese a una cantatrice dilettante) fa assai mal presagire in vista del cimento pesarese con la più ardua parte sopranile di Rossini, erroneamente spacciata per parte declamata: Ermione.