Misteriosi permangono i motivi che hanno spinto la sovrintendenza bolognese a realizzare in forma semiscenica il Requiem verdiano, che mai fu pensato dal suo autore per la scena. Ugualmente oscure le ragioni che hanno portato all’ingaggio di Pier’Alli, autore di un “progetto visivo” che consiste essenzialmente nell’inserzione di un velo semitrasparente fra orchestra e coro, su cui vengono proiettate immagini digitali che mescolano forme geometriche e icone più o meno sacre: un Cristo-Tetris di scarsa originalità e dubbio gusto. L’interesse della serata, come è chiaro, risiede altrove. In primis nella possibilità di ascoltare dal vivo Daniela Dessì, a poco più di un mese dal debutto in Norma e in una parte che, pur diversissima da quella della sacerdotessa druida, richiede come quella notevole ampiezza strumentale, accento tragico e sovrano controllo delle dinamiche.
Quello che abbiamo sentito non lascia ben sperare per la Norma, tutt’altro. La Dessì è apparsa molto soprano leggero, e per giunta un leggero sfiorito e affaticato, segnatamente in alto, dove la voce, già esile, si fa addirittura larvale e non di rado anche stonata. La cantante gioca al risparmio per tutta la sera onde sfoggiare un minimo di ampiezza al Libera me Domine, ma l’illusione dura lo spazio di poche battute, presto sepolte dall’orchestra. La voce ha perso molto anche al centro, mentre per i gravi si ricorre, rimedio consueto quanto poco efficace, a un declamato assai prossimo alla prosa. Non mancano certo le intenzioni, la ricerca di colori e dinamiche sfumate, ma il tutto rimane nell’ambito di una vocalità malferma che rischia di arrivare vieppiù provata, dopo i cimenti romani nella Fanciulla del West, all’appuntamento con la ministra d’Irminsul.
Nemmeno Luciana d’Intino appare un fulmine di guerra: la voce si è notevolmente assottigliata (pur risultando più sonora di quella della Dessì) e i centri sono talvolta aperti nello stile dei contraltazzi d’antan (che erano però tutt’altra cosa in termini d’ampiezza pura). Ciò detto, la linea di canto appare sempre sorvegliatissima, il fraseggio è dinamico e c’è una costante ricerca di sfumature (specie nei momenti in cui l’orchestra si fa più discreta). Insomma il mezzosoprano friulano, sia pure non (più?) al top, dà rinnovata prova del proprio saldo professionismo.
Chi non ha problemi di materia prima, e pare volercelo ricordare senza soluzione di continuità, è Roberto Aronica, deciso a buttare in faccia all’ascoltatore tutta la sua voce, brutta ma tanta. Peccato che con il peso (anzi il macigno) vocale puro non si vada molto in là, nel Requiem (e nel Verdi maturo in generale), essendo l’emissione di strozza, e conseguente assenza di dinamica e potenzialità espressive, il metodo perfetto per svilire la nobiltà di questa musica (e su questo punto rimando volentieri all’intervento in merito dell’amico Duprez). Al muggente Ingemisco, di per sé ampiamente censurabile, ha fatto seguito un Hostias et preces in cui ogni tentativo di cantare piano comportava un deciso sbiancamento della voce, con quale rispetto del dettato verdiano è facile immaginare.
Giacomo Prestia, fattosi annunciare indisposto prima della recita, ha cantato come fa di solito, con una voce che poco o punto ha dell’ampiezza del basso verdiano (ma anche belcantista), un tremolio precoce piuttosto pronunciato cui si è aggiunta, nell’occasione specifica, un’evidente emulazione del Ghiaurov più becero, la ricerca di un accento torvo in grado di conferire autorevolezza a un canto che ne è privo non tanto per la scarsità del materiale vocale di partenza, ma per l’incapacità di proiettare al meglio il suddetto.
A reggere il tutto (discretamente, salvo qualche scollatura rapidamente rientrata) e a far risuonare finalmente al meglio delle loro possibilità orchestra e coro del Comunale, il vecchio leone Georges Prêtre, compassato come al solito, ma anche il più solido direttore schierato finora dalla corrente stagione lirica (diciamo che non si trattava di una missione impossibile, visti i precedenti). Un Requiem esteriore e fracassone, il suo, che guadagna in energia quello che perde in nobiltà. Vorremmo poter dire lo stesso degli altri intervenuti.
Quello che abbiamo sentito non lascia ben sperare per la Norma, tutt’altro. La Dessì è apparsa molto soprano leggero, e per giunta un leggero sfiorito e affaticato, segnatamente in alto, dove la voce, già esile, si fa addirittura larvale e non di rado anche stonata. La cantante gioca al risparmio per tutta la sera onde sfoggiare un minimo di ampiezza al Libera me Domine, ma l’illusione dura lo spazio di poche battute, presto sepolte dall’orchestra. La voce ha perso molto anche al centro, mentre per i gravi si ricorre, rimedio consueto quanto poco efficace, a un declamato assai prossimo alla prosa. Non mancano certo le intenzioni, la ricerca di colori e dinamiche sfumate, ma il tutto rimane nell’ambito di una vocalità malferma che rischia di arrivare vieppiù provata, dopo i cimenti romani nella Fanciulla del West, all’appuntamento con la ministra d’Irminsul.
Nemmeno Luciana d’Intino appare un fulmine di guerra: la voce si è notevolmente assottigliata (pur risultando più sonora di quella della Dessì) e i centri sono talvolta aperti nello stile dei contraltazzi d’antan (che erano però tutt’altra cosa in termini d’ampiezza pura). Ciò detto, la linea di canto appare sempre sorvegliatissima, il fraseggio è dinamico e c’è una costante ricerca di sfumature (specie nei momenti in cui l’orchestra si fa più discreta). Insomma il mezzosoprano friulano, sia pure non (più?) al top, dà rinnovata prova del proprio saldo professionismo.
Chi non ha problemi di materia prima, e pare volercelo ricordare senza soluzione di continuità, è Roberto Aronica, deciso a buttare in faccia all’ascoltatore tutta la sua voce, brutta ma tanta. Peccato che con il peso (anzi il macigno) vocale puro non si vada molto in là, nel Requiem (e nel Verdi maturo in generale), essendo l’emissione di strozza, e conseguente assenza di dinamica e potenzialità espressive, il metodo perfetto per svilire la nobiltà di questa musica (e su questo punto rimando volentieri all’intervento in merito dell’amico Duprez). Al muggente Ingemisco, di per sé ampiamente censurabile, ha fatto seguito un Hostias et preces in cui ogni tentativo di cantare piano comportava un deciso sbiancamento della voce, con quale rispetto del dettato verdiano è facile immaginare.
Giacomo Prestia, fattosi annunciare indisposto prima della recita, ha cantato come fa di solito, con una voce che poco o punto ha dell’ampiezza del basso verdiano (ma anche belcantista), un tremolio precoce piuttosto pronunciato cui si è aggiunta, nell’occasione specifica, un’evidente emulazione del Ghiaurov più becero, la ricerca di un accento torvo in grado di conferire autorevolezza a un canto che ne è privo non tanto per la scarsità del materiale vocale di partenza, ma per l’incapacità di proiettare al meglio il suddetto.
A reggere il tutto (discretamente, salvo qualche scollatura rapidamente rientrata) e a far risuonare finalmente al meglio delle loro possibilità orchestra e coro del Comunale, il vecchio leone Georges Prêtre, compassato come al solito, ma anche il più solido direttore schierato finora dalla corrente stagione lirica (diciamo che non si trattava di una missione impossibile, visti i precedenti). Un Requiem esteriore e fracassone, il suo, che guadagna in energia quello che perde in nobiltà. Vorremmo poter dire lo stesso degli altri intervenuti.
G. Verdi – Requiem
Recordare, Jesu Pie – Marilyn Horne & Daniela Dessì (1990)
Ingemisco – Jussi Björling (1958)
Confutatis maledictis – Tancredi Pasero (1940)
… l’idea non è affatto venuta al Comunal di Bologna, e comunque non all’attual dirigenza: ho avuto la sventura di sentire/vedere quel Requiem semiscenico Piacenza, sette anni fa, una delle tante bufale sponsorizzate dal comitato per le celebrazioni verdiane…!
Caro Angelo, grazie della precisazione.
Allora….siamo recidivi in queste imprese???!!!!
Il Comunale lo spacciava come “Nuovo allestimento”… beh direi complimentoni! e viva la fantasia! In sette anni non hanno trovato un momento per migliorare o anche solo ripensare l’imbarazzante sfilata di ovvietà “digitali” che costituiscono il fulcro di questo “progetto visivo”?