Questo ultimo Don Giovanni, segna la conclusione del ciclo Mozart/Da Ponte nell’interpretazione di René Jacobs (e, almeno temporaneamente, chiude la serie delle sue incisioni mozartiane: pare, infatti, che i prossimi impegni dell’instancabile direttore belga, siano rivolti a Handel – si bisbiglia un nuovo Giulio Cesare – e Cavalli, salvo che le sue attenzioni si spostino bruscamente sul nostro Rossini, circostanza che, mi auguro, gli dei della musica scongiurino). Con questa incisione, si compie anche la completa barocchizzazione di Mozart.
Jacobs infatti, si pone come il più estremo e intransigente apostolo di questa “sacra” missione che riconduce la musica del salisburghese nell’alveo del teatro musicale barocco, interpretandola quindi come estrema propaggine dell’opera seria (portata al suo apogeo da Handel) e ricondotta ad una prassi esecutiva ispirata ai canoni (alquanto discutibili) della nuova filologia.
Ma mentre i vari Malgoire, Ostman, appaiono semplicemente noiosi nella pedissequa applicazione di tali dogmi (che sono i soliti noti: tempi spediti, assenza di qualsivoglia morbidezza e sfumature, esasperazione dei contrasti dinamici, rinuncia alla colorazione di suoni strumentali e vocali che risultano costantemente fissi, secchi e aspri, onnipresenza del continuo, sovrabbondanza di ornamentazioni spesso fuori stile, voci piccole, sbiancate, leggere), Jacobs si spinge oltre. Egli infatti non si accontenta più di ricondurre Mozart a Handel (come già nelle precedenti Così fan tutte e Nozze di Figaro), ma lo trasporta ancora più indietro, sino alla tragédie-lyrique (Lully e Rameau) e al recitar cantando monteverdiano.
Ora, se già appare una forzatura leggere Mozart pensando all’opera seria handeliana (ignorando quindi tutto quello che è successo nella seconda metà del XVIII secolo: riscoperta del classicismo, diffusione delle idee illuministe, influenze della riforma di Gluck), ricondurlo sino a Monteverdi risulta esercizio tanto arbitrario quanto ridicolo.
Ma come procede Jacobs in questa operazione? E’ lui stesso a dichiarare i suoi intenti nelle note che accompagnano l’incisione. Nel libretto infatti, c’è una lunga intervista al direttore, intitolata con un certo eccesso, burning question (domande scottanti: laddove, in realtà, appaiono considerazioni spesso decisamente banali, quando non assolutamente strampalate), in cui Jacobs dispensa le sue verità.
Innanzitutto egli ci informa che il Don Giovanni sarebbe una delle meno conosciute opere di Mozart (o almeno una delle più fraintese) e aggiunge che, fino ad oggi, noi abbiamo sempre ascoltato una versione adulterata, corrotta, falsificata dell’opera, come – uso parole sue – un quadro del passato su cui si sono sovrapposte altre mani in secoli successivi. Afferma quindi che solo con la sua versione si è ripulita la partitura da tutte le alterazioni successive, permettendo così ai colori originali di tornare alla luce (sempre modesto il nostro René).
Jacobs poi sostiene che questa falsificazione sia dovuta alla mala fede di E.T.A. Hoffmann e successori, che avrebbe fatto di Don Giovanni una sorta di eroe tragico, laddove in realtà non sarebbe altro che una figura comica e farsesca. Lui invece, riconduce l’opera ad una sorta di trilogia di cui farebbero parte Eliogabalo di Cavalli e Don Chisciotte di Conti, riportando, quindi, Mozart al recitar cantando secentesco. Dice, infatti, che ci si deve approcciare alla musica mozartiana pensando a Monteverdi (compiendo così un marchiano travisamento storico ed estetico, ignorando che mentre in Monteverdi l’armonia è serva dell’oratione, con la nascita dell’opera seria la musica si emancipa dal testo, per assumere una sua centralità ed autonomia). Per lui “Mi tradì quell’alma ingrata”, ad esempio, andrebbe rapportata al monteverdiano Lamento d’Arianna e ricondotta al topos barocco della donna abbandonata. Ma in genere tutto il Don Giovanni andrebbe considerato come un’opera barocca o pre barocca.
Continua, poi, denunciando come tutte le interpretazioni musicali dell’opera siano state falsate da questa cattiva interpretazione, che ha portato alla demonizzazione del personaggio, alla sottolineatura esclusiva degli aspetti tragici e drammatici, alla forzatura in tal senso del testo, e poi all’arrochimento della voce, allo scurirsi dell’accento, alle urla, alla sostituzione dei recitativi con dialoghi in tedesco etc… Non so quali esperienze di ascolto abbia avuto il buon Jacobs (che sostiene in tante interviste di non ascoltare mai incisioni di altri), ma spacciare i suoi incubi per realtà è quantomeno disonesto: non mi sembra, infatti, che nella lunghissima storia interpretativa dell’opera si possa riscontrare, prima del suo messianico avvento, la prevalenza di una sorta di wagnerizzazione di Mozart (che pure in certi ambienti di scuola teutonica – che pare oggi andare di gran moda – c’è effettivamente stata), non credo che Giulini, Walter, Karajan, Abbado, ma anche Muti, facciano ruggire Don Giovanni o appesantiscano l’accompagnamento come se fosse l’VIII Sinfonia di Mahler!
Altro aspetto che lui critica, nelle burning questions, è la pretesa ambiguità dell’opera. Per lui è una falsificazione: nessuna ambiguità, nessuna sfaccettatura. Don Giovanni è un personaggio esclusivamente comico, i cui appetiti sessuali si risolvono tutti in grotteschi fallimenti, è un volgare seduttore, un immorale e farsesco corruttore di fanciulle, per di più maldestro e sfortunato, privo di ogni dimensione tragica (e tragico non significa drammatico o funereo o infernale, come fraintende Jacobs). A lui si contrappone la perfezione della coppia Donn’Anna/Don Ottavio, in uno speculare gioco degli equivoci, visti come i veri eroi positivi, di incorruttibile nobiltà e fermezza (in questa visione Donn’Anna torna ad essere solo la vittima di Don Giovanni, senza più nessun dubbio sul suo interiore contrasto tra ragione e sentimento: dubbio che rendeva il personaggio estremamente combattuto tra repulsione e attrazione verso il seduttore, e, per questo, di straordinaria umanità e modernità – qui resta invece, solamente la maschera di una purezza ideale – ignorando ancora una volta la sott’intesa malizia della musica di Mozart). Jacobs quindi, elimina dall’interpretazione ogni sfumatura, ogni senso di inafferrabile ambiguità, il Dramma Giocoso diviene volgare Opera Buffa. E per sottolineare questo, lo riempie di caccole interpretative, sospiri, urletti, parlati, versi, balbettii che neppure la peggiore e tradizione teatrale anni ’50 ha mai prodotto (ecco dove va a finire il rigorismo presuntuoso di questi baroccari). Ovviamente la lettura di Don Giovanni come personaggio cinico, amorale (più che immorale), solo, malinconico, conscio della prematura fine della sua parabola eppure ancora attaccato al suo passato che ormai sbiadisce nel ricordo (mi piace qui riferirmi al Casanova di Schnitzler) è del tutto assente. Forse Jacobs confonde questa ambiguità (che è uno dei motivi più affascinanti dell’opera) con le idealizzazioni romantiche che ne hanno fatto una sorta di Faust o di Lucifero. Ma così facendo Jacobs travisa il personaggio: Don Giovanni è figlio di quel razionalismo cinico e ironico, malinconico e spietato di cui è esponente anche il Don Alfonso di Così Fan Tutte. In lui si incarna l’autunno dell’Illuminismo, arroccato sulle certezze della sua ragione, mentre il mondo attorno cambia e il tempo passa e la vita tramonta. Don Giovanni sta lì in mezzo, osserva, è superiore, al di là del bene e del male. Quest’ambiguità è totalmente assente in Jacobs (e in questo errore non è il solo a cadere, molti infatti non superano questa che è una delle più grandi difficoltà dell’opera).
Sulla scelta dei tempi Jacobs, ovviamente, segue la consueta tendenza baroccara alla velocizzazione e alla speditezza, e – nello spacciarla per quella giusta ed autentica (curioso che un altro, e più serio, direttore filologo, Nikolaus Harnoncourt, pervenga ad una opposta conclusione, dilatando, nelle sue esecuzioni, le dinamiche e ampliando il respiro) – arriva ad affermare che i tempi più lenti della tradizione pre filologica, sono dovuti ad un equivoco in cui i passati esecutori sono caduti: essi, infatti, rallentavano perché, essendo musica bellissima, avrebbero voluto che durasse il più a lungo possibile. Scrive proprio così! Talvolta poi (ad esempio nel caso del finale II), certe scelte fanno a pugni non solo con la vecchia tradizione esecutiva (e questo è proprio l’intento jacobsiano), ma anche con le fonti (ed è cosa più grave, giacchè le note scritte andrebbero rispettate, e non trattate alla stregua di un canovaccio da commedia dell’arte): se si prende la Neue Mozart-Ausgabe edita da Barenreiter (edizione critica recentissima, la terza, datata 2001), si noterà che l’ingresso del Commendatore è segnato con un andante (e non andante alla breve, come Jacobs ci assicura che Mozart avesse in realtà inteso: forse confondendo il tempo del brano, un 4/4 tagliato – cioè un 2/2 – detto anche a cappella o alla breve, ma intendendosi non già l’indicazione dinamica – che andante era e andante rimane, quindi con misurazione metronomica che va, secondo la convenzione di Maelzel, da 76 a 108 – bensì derivante dal nome dato alla nota del valore di 2/4 detta anche minima o, appunto, breve), stessa indicazione riportata nella prima parte della Sinfonia, di cui riprende il tema (sviluppato poi, per tutta la scena). Eppure Jacobs, che in apertura di Sinfonia utilizza un tempo sì veloce, ma non eccessivamente, in questo finale II accelera quasi a raddoppiare la velocità, con il risultato di renderlo sbrigativo e frettoloso, e annullando di fatto, ogni stacco dinamico con la conclusione dell’opera, che risulta essere solo di poco più movimentata, nonostante le indicazioni di più stretto (in corrispondenza a “Oimè, che gelo è questo mai”), allegro (in corrispondenza di “Da qual tremore insolito”) e allegro assai (in corrispondenza a “Ah dove è il perfido”), che suggerirebbero quindi un maggior contrasto ritmico con il precedente andante in modo da movimentare e variare la dinamica dell’intero finale che, dopo essere passato per un rasserenante larghetto, si conclude con un presto. Di questo evocativo ed efficacissimo gioco dinamico non v’è più traccia nella presente incisione.
Infine Jacobs ci parla della sua scelta editoriale, nell’optare per la versione di Vienna del 1788 (relegando in appendice l’aria di Leporello “Ah pietà signori miei” e quella di Don Ottavio “Il mio tesoro intanto”) ripetendo considerazioni arcinote, ma spacciate per innovative (e pensare che pure Gardiner optava per la medesima edizione, più di dieci anni fa, senza incensarsi tanto), sull’asserito squilibrio della versione mista (che però io personalmente prediligo, perché oltre ad includere entrambe le arie di Don Ottavio non comprende il duetto tra Leporello e Zerlina “Per quelle tue manine”, che effettivamente rallenta e intorbidisce l’azione, senza apportare migliorie musicali, data la modestia del brano).
Questi i punti-chiave della lettura jacobsiana del testo mozatiano. Certo le premesse non incoraggiano l’ascolto, tuttavia vale la pena soffermarsi sulle conseguenti realizzazioni di cotanti presupposti.
Appena inserito il cd nel lettore e dopo qualche minuto di ascolto della Sinfonia, colpisce la totale assenza di colore: i contrasti sono esasperati, tutto è o ffff o pppp, senza nessuna sfumatura e morbidezza. I suoni, fin da subito, sono stimbrati ed emessi con fastidioso stridore, gli archi sono ovviamente ridotti (e pensare che Mozart stesso scriveva al padre, in occasione della prima della sua Sinfonia in do maggiore, che per lui sarebbe stata una gioia immensa eseguirla con venti violini primi!, mentre questi sedicenti filologi odierni ne impongono al massimo sei o sette, scambiando una banale necessità pratica per chissà quale volontà estetica!), sgradevoli, aspri e gessosi, i fiati, dal suono molto secco e incolore, sono predominanti. Tutto l’accompagnamento orchestrale poi, è greve, pesante, impacciato, sovrabbondante, chiassoso (mentre le precedenti uscite discografiche mozartiane, pur con tutti i limiti dei presupposti estetici, erano almeno giocate sulla leggerezza e l’eleganza). Il canto segue, ovviamente, le medesime direttive, riproponendo i soliti vezzi baroccari, di cui ho già abbondantemente dato conto. Vale la pena però, soffermarsi su due aspetti: la realizzazione dei recitativi e le abbondanti variazioni di cui è infarcita la partitura.
I recitativi sono un vero punto dolente (e stupisce, poiché solitamente Jacobs li cura con maggior attenzione): risultano sempre chiassosi e grevi, il fortepiano è invasivo e le improvvisazioni sono decisamente brutte (e qui si sente il cambio di mano: nelle altre realizzazioni c’era il bravissimo Nicolau de Figueiredo, elegante nell’accompagnare, fantasioso, incalzante; qui c’è il greve e decisamente poco ispirato Giorgio Paronuzzi, davvero pessimo – mentre nella jacobsiana Clemenza di Tito era parso molto più convincente). Alla pesantezza inutile di questi recitativi (talmente sovrabbondanti di inserti strumentali di violoncello e basso, da non sembrar più neppure “secchi”, ma accompagnati) si aggiunge la pronuncia sgradevole di taluni interpreti e il ricorso a quell’armamentario di versi, versettini, moine, caccole, berci che fan tornare alla mente certe incisioni anni ’50 (stile Gobbi o Corena nei momenti peggiori per intenderci) e che, francamente, si sperava fosse un brutto ricordo del passato.
Sulle variazioni il discorso è più complesso. Premetto che nella musica mozartiana, non mi convince molto l’alterazione della linea vocale con abbellimenti e ornamentazioni eccessive (e questo perché la struttura musicale delle sue opere è definita da un equilibrio fragilissimo, e basta davvero poco a minarne la perfezione), nè la ritengo del tutto corretta (con l’eccezione delle appoggiature, che, però, è questione ben differente), vista la prassi d’epoca e l’ambiente (siamo sempre nella Vienna della riforma gluckiana, nell’Europa del classicismo illuminista, ed è questo l’ambito dove egli opera, che piaccia o meno). Senza contare che Mozart, laddove ha voluto cadenze, abbellimenti e variazioni le ha sempre scritte, tanto da approntare diverse redazioni dei propri brani a seconda delle capacità del cantante (si vedano le differenti versioni di “Fuor del mar” e di “Marten aller arten”), cosa che sarebbe risultata del tutto superflua in epoca di opera seria barocca, dove i cantanti, per semplificare o abbellire, non aspettavano certo che l’autore vi provvedesse. Si deve considerare poi, che solo pochi degli interpreti con cui ha lavorato, erano dei veri virtuosi: tra quelli che mi vengono in mente, citerei in particolare Maria Aloysia Weber (per lei Mozart scrisse diverse arie da concerto, tra cui “Ma che vi fece, o stelle” KV368, “Ah lo previdi” KV272, e la impervia e spettacolare “Popoli di Tessaglia” KV316), poi la sorella Maria Josepha Weber (prima Astrifiammante) e, naturalmente, Katharina Cavalieri (la prima Costanze e la Elvira di Vienna, per cui fu scritta “Mi tradì quell’alma ingrata”). Comunque, se pure si vuole variare, si dovrebbe procedere con grande cautela, con buon gusto, e in modo coerente e non invasivo allo stile musicale dell’opera o del pezzo, magari ispirandosi alle stesse ornamentazioni preparate da Mozart, per taluni brani suoi (“Ah se a morir mi chiama” dal Lucio Silla, o la già citata “Marten aller arten” o l’aria da concerto KV294 “Alcandro lo confesso”) o per quelli di altri autori (Adriano in Siria e La clemenza di Scipione di Johann Christian Bach ). Jacobs invece, agisce diversamente e azzarda – in modo assai differente dalle precedenti incisioni mozartiane – uno stile di abbellimenti più consono al recitar cantando monteverdiano, con trilli fissi e ribattuti, e messe di voce somiglianti a sirene, che poco o nulla c’entrano con lo stile mozartiano (in verità stonerebbero pure in Handel!) e che vanno a vanificare la purezza del canto. Ancora più azzardate appaiono poi le scelte relative al luogo in cui inserire dette variazioni: esse, infatti – se proprio si devono/vogliono fare – dovrebbero essere riservate ai da capo delle arie (e questo per una questione di logica: la linea musicale viene prima esposta come scritta e poi variata per mostrare la bravura dell’interprete, da Handel a Donizetti è sempre stato così) e invece Jacobs, inspiegabilmente non varia tutte le arie col da capo, in compenso mette delle oscene variazioni nell’aria del catalogo (dimenticandosi che Leporello è personaggio buffo e la prassi dell’epoca per tali ruoli non prevedeva virtuosismi o esibizioni) e nella seconda strofa della serenata del protagonista (ma una seconda strofa non è un da capo!). E poi che variazioni! Sono oggettivamente brutte, senza scampo, la serenata è semplicemente rovinata, la seconda strofa va ad alterare del tutto la linea vocale sino a renderla incomprensibile e irriconoscibile (facendo pure a pugni con l’armonia del pezzo). Insomma Jacobs procede in modo incoerente e grossolano: varia dove non dovrebbe, e dove si potrebbe non varia. E comunque – per limiti di gusto suoi o dell’interprete – varia sempre in modo osceno.
Gli interpreti impiegati poi, a prescindere dalle basi teoriche delle loro esecuzione, sono del tutto inadeguati (con parziale esclusione di Leporello). Johannes Weisser interpreta un Don Giovanni, dalla voce chiara e sbiancata, quasi tenorile, povera di colore e con gravi lacune tecniche, in cui non c’è traccia di calore e morbidezza (il tanto vituperato canto all’italiana, in odio ai baroccari), è un seduttore troppo giovanile e sopra le righe, volgare ed esagitato, e spesso sfocia nel parlato (ad esempio la frase “Leporello un’altra cena, fa che subito si porti”). La pronuncia italiana è carente (e i recitativi ne risentono terribilmente) e credo che, senza le comodità di uno studio di incisione, sarebbe difficilmente udibile in un teatro vero e con un’orchestra vera (caratteristica, questa, che accomuna tutti, o quasi, i nuovi cantanti filologici). Leporello è interpretato da Lorenzo Regazzo (il migliore in questo improbabile cast), con voce dal bel timbro, anche se non molto corposa, e dall’emissione ben controllata. Il canto è morbido e abbastanza elegante, ma risente del clima generale, fornendo un’interpretazione talvolta poco misurata, e piena di inutili eccessi “teatrali” spesso di cattivo gusto (si senta ad esempio l’aria del catalogo). Kenneth Tarver (che, per la cronaca, ha pure azzardato il difficilissimo ruolo di Giacomo V nella rossiniana Donna del lago per Opera Rara, soccombendo miseramente all’impervia e proibitiva scrittura), è tenorino sbiancato e sospiroso, e si inserisce perfettamente nella tradizione anglosassone dei Don Ottavio insipidi ed effemminati. I fiati sono corti (effetto apnea) e l’agilità non è impeccabile. E’ costretto a spingere appena sale nella tessitura e ricorre spessissimo al falsetto, rendendo ancora più evanescente, il già sbiadito personaggio. Oltretutto la voce tende a crescere. Nikolay Borchev è un Masetto modesto, molto gutturale e dall’emissione aspirata e traballante. Alessandro Guerzoni è un buon Commendatore, anche se messo in difficoltà (soprattutto in alto) dai tempi particolarmente rapidi del finale II, dove una voce poco agile come è naturalmente quella del basso, con tali velocità non può che trovarsi a disagio. Passando al reparto femminile, le cose peggiorano ancora. Donna Elvira è una Alexandrina Pendatchanska (novella star del canto baroccaro) dalla voce abbastanza debole, fissa e tendente a calare, che si sforza di trovare un certo corpo, con agilità costantemente aspirate e poco fluide. Gli acuti non sono facili e i bassi appaiono evanescenti e sforzati. In “Mi tradì quell’alma ingrata” naufraga in più punti, quando i fiati non reggono i tempi già veloci staccati da Jacobs. La peggiore di tutto il cast (e forse la peggiore Donn’Anna dell’intera discografia dell’opera) è però Olga Pasichnyk: voce estremamente gutturale, emissione impastata, enormi difetti di pronuncia, agilità difficoltosa e pasticciata, centro povero, bassi inesistenti e acuti strillati e fissi come sirene, monocorde, incapace di legare e di tenere il fiato. Semplicemente pessima. Infine la Zerlina di Sunhae Im, una zanzarina leziosa e dalla voce piccolissima, che si assottiglia sempre di più man mano che sale, e che sparisce quando scende.
Questo è il Don Giovanni nella revisione (assai libera) di René Jacobs, che verrà salutato dalla solita gragnula di premi e riconoscimenti che i nostri cugini d’oltralpe riservano ad ogni uscita dell’onnipotente direttore belga (tanto che sembrano creati apposta per lui e i suoi sodali), ma che non è altro che un ulteriore passo verso una preoccupante omologazione del teatro d’opera, in letture fondamentalmente antimusicali, poichè prescindono dal dato estetico dell’appagamento (belle voci e bel suono) che la penuria odierna di veri artisti impedisce. E allora – malcelato intento di questi filologi d’accatto – meglio modificare i canoni estetici con finzioni e costruzioni ideologiche, per garantire il magro esistente, piuttosto che porre rimedio a questa veloce decadenza. Ormai il mondo discografico è stato conquistato dal verbo baroccaro (dopo Mozart e Beethoven si estenderà a Rossini e chissà, pure al melodramma) e, dopo il mercato discografico, si appresta a monopolizzare anche i palcoscenici. Cosa resterà allora del piacere del belcanto? Chiudo con le parole di Daniel Barenboim, relative a questa trionfante pratica delle esecuzioni filologiche: “Ho due problemi con il cosiddetto pensiero dell’esecuzione filologia. Prima di tutto mi disturba il fatto che si tratta di un movimento, quindi di un’ideologia, di una visione del mondo, che più che porsi domande si dà l’aria di conoscere già le risposte. E quindi limita la creatività umana. Ciò non toglie che vi siano molti musicisti straordinari, dotati di incredibile talento, fra i colleghi che vi aderiscono. Però questo movimento ha in un certo senso isolato alcuni singoli elementi – il suono, il tempo – come se fossero indipendenti l’uno dall’altro. Penso che questa sia una sciocchezza colossale. In secondo luogo, e lo dico senza nessuna ironia, questa ideologia è riuscita a farsi passare per progressista. Ecco perchè ha così tanto successo, ecco il motivo del suo trionfo. Ma come può essere progressista qualcosa che invita a guardare indietro, per vedere com’erano le cose in passato?”
Jacobs infatti, si pone come il più estremo e intransigente apostolo di questa “sacra” missione che riconduce la musica del salisburghese nell’alveo del teatro musicale barocco, interpretandola quindi come estrema propaggine dell’opera seria (portata al suo apogeo da Handel) e ricondotta ad una prassi esecutiva ispirata ai canoni (alquanto discutibili) della nuova filologia.
Ma mentre i vari Malgoire, Ostman, appaiono semplicemente noiosi nella pedissequa applicazione di tali dogmi (che sono i soliti noti: tempi spediti, assenza di qualsivoglia morbidezza e sfumature, esasperazione dei contrasti dinamici, rinuncia alla colorazione di suoni strumentali e vocali che risultano costantemente fissi, secchi e aspri, onnipresenza del continuo, sovrabbondanza di ornamentazioni spesso fuori stile, voci piccole, sbiancate, leggere), Jacobs si spinge oltre. Egli infatti non si accontenta più di ricondurre Mozart a Handel (come già nelle precedenti Così fan tutte e Nozze di Figaro), ma lo trasporta ancora più indietro, sino alla tragédie-lyrique (Lully e Rameau) e al recitar cantando monteverdiano.
Ora, se già appare una forzatura leggere Mozart pensando all’opera seria handeliana (ignorando quindi tutto quello che è successo nella seconda metà del XVIII secolo: riscoperta del classicismo, diffusione delle idee illuministe, influenze della riforma di Gluck), ricondurlo sino a Monteverdi risulta esercizio tanto arbitrario quanto ridicolo.
Ma come procede Jacobs in questa operazione? E’ lui stesso a dichiarare i suoi intenti nelle note che accompagnano l’incisione. Nel libretto infatti, c’è una lunga intervista al direttore, intitolata con un certo eccesso, burning question (domande scottanti: laddove, in realtà, appaiono considerazioni spesso decisamente banali, quando non assolutamente strampalate), in cui Jacobs dispensa le sue verità.
Innanzitutto egli ci informa che il Don Giovanni sarebbe una delle meno conosciute opere di Mozart (o almeno una delle più fraintese) e aggiunge che, fino ad oggi, noi abbiamo sempre ascoltato una versione adulterata, corrotta, falsificata dell’opera, come – uso parole sue – un quadro del passato su cui si sono sovrapposte altre mani in secoli successivi. Afferma quindi che solo con la sua versione si è ripulita la partitura da tutte le alterazioni successive, permettendo così ai colori originali di tornare alla luce (sempre modesto il nostro René).
Jacobs poi sostiene che questa falsificazione sia dovuta alla mala fede di E.T.A. Hoffmann e successori, che avrebbe fatto di Don Giovanni una sorta di eroe tragico, laddove in realtà non sarebbe altro che una figura comica e farsesca. Lui invece, riconduce l’opera ad una sorta di trilogia di cui farebbero parte Eliogabalo di Cavalli e Don Chisciotte di Conti, riportando, quindi, Mozart al recitar cantando secentesco. Dice, infatti, che ci si deve approcciare alla musica mozartiana pensando a Monteverdi (compiendo così un marchiano travisamento storico ed estetico, ignorando che mentre in Monteverdi l’armonia è serva dell’oratione, con la nascita dell’opera seria la musica si emancipa dal testo, per assumere una sua centralità ed autonomia). Per lui “Mi tradì quell’alma ingrata”, ad esempio, andrebbe rapportata al monteverdiano Lamento d’Arianna e ricondotta al topos barocco della donna abbandonata. Ma in genere tutto il Don Giovanni andrebbe considerato come un’opera barocca o pre barocca.
Continua, poi, denunciando come tutte le interpretazioni musicali dell’opera siano state falsate da questa cattiva interpretazione, che ha portato alla demonizzazione del personaggio, alla sottolineatura esclusiva degli aspetti tragici e drammatici, alla forzatura in tal senso del testo, e poi all’arrochimento della voce, allo scurirsi dell’accento, alle urla, alla sostituzione dei recitativi con dialoghi in tedesco etc… Non so quali esperienze di ascolto abbia avuto il buon Jacobs (che sostiene in tante interviste di non ascoltare mai incisioni di altri), ma spacciare i suoi incubi per realtà è quantomeno disonesto: non mi sembra, infatti, che nella lunghissima storia interpretativa dell’opera si possa riscontrare, prima del suo messianico avvento, la prevalenza di una sorta di wagnerizzazione di Mozart (che pure in certi ambienti di scuola teutonica – che pare oggi andare di gran moda – c’è effettivamente stata), non credo che Giulini, Walter, Karajan, Abbado, ma anche Muti, facciano ruggire Don Giovanni o appesantiscano l’accompagnamento come se fosse l’VIII Sinfonia di Mahler!
Altro aspetto che lui critica, nelle burning questions, è la pretesa ambiguità dell’opera. Per lui è una falsificazione: nessuna ambiguità, nessuna sfaccettatura. Don Giovanni è un personaggio esclusivamente comico, i cui appetiti sessuali si risolvono tutti in grotteschi fallimenti, è un volgare seduttore, un immorale e farsesco corruttore di fanciulle, per di più maldestro e sfortunato, privo di ogni dimensione tragica (e tragico non significa drammatico o funereo o infernale, come fraintende Jacobs). A lui si contrappone la perfezione della coppia Donn’Anna/Don Ottavio, in uno speculare gioco degli equivoci, visti come i veri eroi positivi, di incorruttibile nobiltà e fermezza (in questa visione Donn’Anna torna ad essere solo la vittima di Don Giovanni, senza più nessun dubbio sul suo interiore contrasto tra ragione e sentimento: dubbio che rendeva il personaggio estremamente combattuto tra repulsione e attrazione verso il seduttore, e, per questo, di straordinaria umanità e modernità – qui resta invece, solamente la maschera di una purezza ideale – ignorando ancora una volta la sott’intesa malizia della musica di Mozart). Jacobs quindi, elimina dall’interpretazione ogni sfumatura, ogni senso di inafferrabile ambiguità, il Dramma Giocoso diviene volgare Opera Buffa. E per sottolineare questo, lo riempie di caccole interpretative, sospiri, urletti, parlati, versi, balbettii che neppure la peggiore e tradizione teatrale anni ’50 ha mai prodotto (ecco dove va a finire il rigorismo presuntuoso di questi baroccari). Ovviamente la lettura di Don Giovanni come personaggio cinico, amorale (più che immorale), solo, malinconico, conscio della prematura fine della sua parabola eppure ancora attaccato al suo passato che ormai sbiadisce nel ricordo (mi piace qui riferirmi al Casanova di Schnitzler) è del tutto assente. Forse Jacobs confonde questa ambiguità (che è uno dei motivi più affascinanti dell’opera) con le idealizzazioni romantiche che ne hanno fatto una sorta di Faust o di Lucifero. Ma così facendo Jacobs travisa il personaggio: Don Giovanni è figlio di quel razionalismo cinico e ironico, malinconico e spietato di cui è esponente anche il Don Alfonso di Così Fan Tutte. In lui si incarna l’autunno dell’Illuminismo, arroccato sulle certezze della sua ragione, mentre il mondo attorno cambia e il tempo passa e la vita tramonta. Don Giovanni sta lì in mezzo, osserva, è superiore, al di là del bene e del male. Quest’ambiguità è totalmente assente in Jacobs (e in questo errore non è il solo a cadere, molti infatti non superano questa che è una delle più grandi difficoltà dell’opera).
Sulla scelta dei tempi Jacobs, ovviamente, segue la consueta tendenza baroccara alla velocizzazione e alla speditezza, e – nello spacciarla per quella giusta ed autentica (curioso che un altro, e più serio, direttore filologo, Nikolaus Harnoncourt, pervenga ad una opposta conclusione, dilatando, nelle sue esecuzioni, le dinamiche e ampliando il respiro) – arriva ad affermare che i tempi più lenti della tradizione pre filologica, sono dovuti ad un equivoco in cui i passati esecutori sono caduti: essi, infatti, rallentavano perché, essendo musica bellissima, avrebbero voluto che durasse il più a lungo possibile. Scrive proprio così! Talvolta poi (ad esempio nel caso del finale II), certe scelte fanno a pugni non solo con la vecchia tradizione esecutiva (e questo è proprio l’intento jacobsiano), ma anche con le fonti (ed è cosa più grave, giacchè le note scritte andrebbero rispettate, e non trattate alla stregua di un canovaccio da commedia dell’arte): se si prende la Neue Mozart-Ausgabe edita da Barenreiter (edizione critica recentissima, la terza, datata 2001), si noterà che l’ingresso del Commendatore è segnato con un andante (e non andante alla breve, come Jacobs ci assicura che Mozart avesse in realtà inteso: forse confondendo il tempo del brano, un 4/4 tagliato – cioè un 2/2 – detto anche a cappella o alla breve, ma intendendosi non già l’indicazione dinamica – che andante era e andante rimane, quindi con misurazione metronomica che va, secondo la convenzione di Maelzel, da 76 a 108 – bensì derivante dal nome dato alla nota del valore di 2/4 detta anche minima o, appunto, breve), stessa indicazione riportata nella prima parte della Sinfonia, di cui riprende il tema (sviluppato poi, per tutta la scena). Eppure Jacobs, che in apertura di Sinfonia utilizza un tempo sì veloce, ma non eccessivamente, in questo finale II accelera quasi a raddoppiare la velocità, con il risultato di renderlo sbrigativo e frettoloso, e annullando di fatto, ogni stacco dinamico con la conclusione dell’opera, che risulta essere solo di poco più movimentata, nonostante le indicazioni di più stretto (in corrispondenza a “Oimè, che gelo è questo mai”), allegro (in corrispondenza di “Da qual tremore insolito”) e allegro assai (in corrispondenza a “Ah dove è il perfido”), che suggerirebbero quindi un maggior contrasto ritmico con il precedente andante in modo da movimentare e variare la dinamica dell’intero finale che, dopo essere passato per un rasserenante larghetto, si conclude con un presto. Di questo evocativo ed efficacissimo gioco dinamico non v’è più traccia nella presente incisione.
Infine Jacobs ci parla della sua scelta editoriale, nell’optare per la versione di Vienna del 1788 (relegando in appendice l’aria di Leporello “Ah pietà signori miei” e quella di Don Ottavio “Il mio tesoro intanto”) ripetendo considerazioni arcinote, ma spacciate per innovative (e pensare che pure Gardiner optava per la medesima edizione, più di dieci anni fa, senza incensarsi tanto), sull’asserito squilibrio della versione mista (che però io personalmente prediligo, perché oltre ad includere entrambe le arie di Don Ottavio non comprende il duetto tra Leporello e Zerlina “Per quelle tue manine”, che effettivamente rallenta e intorbidisce l’azione, senza apportare migliorie musicali, data la modestia del brano).
Questi i punti-chiave della lettura jacobsiana del testo mozatiano. Certo le premesse non incoraggiano l’ascolto, tuttavia vale la pena soffermarsi sulle conseguenti realizzazioni di cotanti presupposti.
Appena inserito il cd nel lettore e dopo qualche minuto di ascolto della Sinfonia, colpisce la totale assenza di colore: i contrasti sono esasperati, tutto è o ffff o pppp, senza nessuna sfumatura e morbidezza. I suoni, fin da subito, sono stimbrati ed emessi con fastidioso stridore, gli archi sono ovviamente ridotti (e pensare che Mozart stesso scriveva al padre, in occasione della prima della sua Sinfonia in do maggiore, che per lui sarebbe stata una gioia immensa eseguirla con venti violini primi!, mentre questi sedicenti filologi odierni ne impongono al massimo sei o sette, scambiando una banale necessità pratica per chissà quale volontà estetica!), sgradevoli, aspri e gessosi, i fiati, dal suono molto secco e incolore, sono predominanti. Tutto l’accompagnamento orchestrale poi, è greve, pesante, impacciato, sovrabbondante, chiassoso (mentre le precedenti uscite discografiche mozartiane, pur con tutti i limiti dei presupposti estetici, erano almeno giocate sulla leggerezza e l’eleganza). Il canto segue, ovviamente, le medesime direttive, riproponendo i soliti vezzi baroccari, di cui ho già abbondantemente dato conto. Vale la pena però, soffermarsi su due aspetti: la realizzazione dei recitativi e le abbondanti variazioni di cui è infarcita la partitura.
I recitativi sono un vero punto dolente (e stupisce, poiché solitamente Jacobs li cura con maggior attenzione): risultano sempre chiassosi e grevi, il fortepiano è invasivo e le improvvisazioni sono decisamente brutte (e qui si sente il cambio di mano: nelle altre realizzazioni c’era il bravissimo Nicolau de Figueiredo, elegante nell’accompagnare, fantasioso, incalzante; qui c’è il greve e decisamente poco ispirato Giorgio Paronuzzi, davvero pessimo – mentre nella jacobsiana Clemenza di Tito era parso molto più convincente). Alla pesantezza inutile di questi recitativi (talmente sovrabbondanti di inserti strumentali di violoncello e basso, da non sembrar più neppure “secchi”, ma accompagnati) si aggiunge la pronuncia sgradevole di taluni interpreti e il ricorso a quell’armamentario di versi, versettini, moine, caccole, berci che fan tornare alla mente certe incisioni anni ’50 (stile Gobbi o Corena nei momenti peggiori per intenderci) e che, francamente, si sperava fosse un brutto ricordo del passato.
Sulle variazioni il discorso è più complesso. Premetto che nella musica mozartiana, non mi convince molto l’alterazione della linea vocale con abbellimenti e ornamentazioni eccessive (e questo perché la struttura musicale delle sue opere è definita da un equilibrio fragilissimo, e basta davvero poco a minarne la perfezione), nè la ritengo del tutto corretta (con l’eccezione delle appoggiature, che, però, è questione ben differente), vista la prassi d’epoca e l’ambiente (siamo sempre nella Vienna della riforma gluckiana, nell’Europa del classicismo illuminista, ed è questo l’ambito dove egli opera, che piaccia o meno). Senza contare che Mozart, laddove ha voluto cadenze, abbellimenti e variazioni le ha sempre scritte, tanto da approntare diverse redazioni dei propri brani a seconda delle capacità del cantante (si vedano le differenti versioni di “Fuor del mar” e di “Marten aller arten”), cosa che sarebbe risultata del tutto superflua in epoca di opera seria barocca, dove i cantanti, per semplificare o abbellire, non aspettavano certo che l’autore vi provvedesse. Si deve considerare poi, che solo pochi degli interpreti con cui ha lavorato, erano dei veri virtuosi: tra quelli che mi vengono in mente, citerei in particolare Maria Aloysia Weber (per lei Mozart scrisse diverse arie da concerto, tra cui “Ma che vi fece, o stelle” KV368, “Ah lo previdi” KV272, e la impervia e spettacolare “Popoli di Tessaglia” KV316), poi la sorella Maria Josepha Weber (prima Astrifiammante) e, naturalmente, Katharina Cavalieri (la prima Costanze e la Elvira di Vienna, per cui fu scritta “Mi tradì quell’alma ingrata”). Comunque, se pure si vuole variare, si dovrebbe procedere con grande cautela, con buon gusto, e in modo coerente e non invasivo allo stile musicale dell’opera o del pezzo, magari ispirandosi alle stesse ornamentazioni preparate da Mozart, per taluni brani suoi (“Ah se a morir mi chiama” dal Lucio Silla, o la già citata “Marten aller arten” o l’aria da concerto KV294 “Alcandro lo confesso”) o per quelli di altri autori (Adriano in Siria e La clemenza di Scipione di Johann Christian Bach ). Jacobs invece, agisce diversamente e azzarda – in modo assai differente dalle precedenti incisioni mozartiane – uno stile di abbellimenti più consono al recitar cantando monteverdiano, con trilli fissi e ribattuti, e messe di voce somiglianti a sirene, che poco o nulla c’entrano con lo stile mozartiano (in verità stonerebbero pure in Handel!) e che vanno a vanificare la purezza del canto. Ancora più azzardate appaiono poi le scelte relative al luogo in cui inserire dette variazioni: esse, infatti – se proprio si devono/vogliono fare – dovrebbero essere riservate ai da capo delle arie (e questo per una questione di logica: la linea musicale viene prima esposta come scritta e poi variata per mostrare la bravura dell’interprete, da Handel a Donizetti è sempre stato così) e invece Jacobs, inspiegabilmente non varia tutte le arie col da capo, in compenso mette delle oscene variazioni nell’aria del catalogo (dimenticandosi che Leporello è personaggio buffo e la prassi dell’epoca per tali ruoli non prevedeva virtuosismi o esibizioni) e nella seconda strofa della serenata del protagonista (ma una seconda strofa non è un da capo!). E poi che variazioni! Sono oggettivamente brutte, senza scampo, la serenata è semplicemente rovinata, la seconda strofa va ad alterare del tutto la linea vocale sino a renderla incomprensibile e irriconoscibile (facendo pure a pugni con l’armonia del pezzo). Insomma Jacobs procede in modo incoerente e grossolano: varia dove non dovrebbe, e dove si potrebbe non varia. E comunque – per limiti di gusto suoi o dell’interprete – varia sempre in modo osceno.
Gli interpreti impiegati poi, a prescindere dalle basi teoriche delle loro esecuzione, sono del tutto inadeguati (con parziale esclusione di Leporello). Johannes Weisser interpreta un Don Giovanni, dalla voce chiara e sbiancata, quasi tenorile, povera di colore e con gravi lacune tecniche, in cui non c’è traccia di calore e morbidezza (il tanto vituperato canto all’italiana, in odio ai baroccari), è un seduttore troppo giovanile e sopra le righe, volgare ed esagitato, e spesso sfocia nel parlato (ad esempio la frase “Leporello un’altra cena, fa che subito si porti”). La pronuncia italiana è carente (e i recitativi ne risentono terribilmente) e credo che, senza le comodità di uno studio di incisione, sarebbe difficilmente udibile in un teatro vero e con un’orchestra vera (caratteristica, questa, che accomuna tutti, o quasi, i nuovi cantanti filologici). Leporello è interpretato da Lorenzo Regazzo (il migliore in questo improbabile cast), con voce dal bel timbro, anche se non molto corposa, e dall’emissione ben controllata. Il canto è morbido e abbastanza elegante, ma risente del clima generale, fornendo un’interpretazione talvolta poco misurata, e piena di inutili eccessi “teatrali” spesso di cattivo gusto (si senta ad esempio l’aria del catalogo). Kenneth Tarver (che, per la cronaca, ha pure azzardato il difficilissimo ruolo di Giacomo V nella rossiniana Donna del lago per Opera Rara, soccombendo miseramente all’impervia e proibitiva scrittura), è tenorino sbiancato e sospiroso, e si inserisce perfettamente nella tradizione anglosassone dei Don Ottavio insipidi ed effemminati. I fiati sono corti (effetto apnea) e l’agilità non è impeccabile. E’ costretto a spingere appena sale nella tessitura e ricorre spessissimo al falsetto, rendendo ancora più evanescente, il già sbiadito personaggio. Oltretutto la voce tende a crescere. Nikolay Borchev è un Masetto modesto, molto gutturale e dall’emissione aspirata e traballante. Alessandro Guerzoni è un buon Commendatore, anche se messo in difficoltà (soprattutto in alto) dai tempi particolarmente rapidi del finale II, dove una voce poco agile come è naturalmente quella del basso, con tali velocità non può che trovarsi a disagio. Passando al reparto femminile, le cose peggiorano ancora. Donna Elvira è una Alexandrina Pendatchanska (novella star del canto baroccaro) dalla voce abbastanza debole, fissa e tendente a calare, che si sforza di trovare un certo corpo, con agilità costantemente aspirate e poco fluide. Gli acuti non sono facili e i bassi appaiono evanescenti e sforzati. In “Mi tradì quell’alma ingrata” naufraga in più punti, quando i fiati non reggono i tempi già veloci staccati da Jacobs. La peggiore di tutto il cast (e forse la peggiore Donn’Anna dell’intera discografia dell’opera) è però Olga Pasichnyk: voce estremamente gutturale, emissione impastata, enormi difetti di pronuncia, agilità difficoltosa e pasticciata, centro povero, bassi inesistenti e acuti strillati e fissi come sirene, monocorde, incapace di legare e di tenere il fiato. Semplicemente pessima. Infine la Zerlina di Sunhae Im, una zanzarina leziosa e dalla voce piccolissima, che si assottiglia sempre di più man mano che sale, e che sparisce quando scende.
Questo è il Don Giovanni nella revisione (assai libera) di René Jacobs, che verrà salutato dalla solita gragnula di premi e riconoscimenti che i nostri cugini d’oltralpe riservano ad ogni uscita dell’onnipotente direttore belga (tanto che sembrano creati apposta per lui e i suoi sodali), ma che non è altro che un ulteriore passo verso una preoccupante omologazione del teatro d’opera, in letture fondamentalmente antimusicali, poichè prescindono dal dato estetico dell’appagamento (belle voci e bel suono) che la penuria odierna di veri artisti impedisce. E allora – malcelato intento di questi filologi d’accatto – meglio modificare i canoni estetici con finzioni e costruzioni ideologiche, per garantire il magro esistente, piuttosto che porre rimedio a questa veloce decadenza. Ormai il mondo discografico è stato conquistato dal verbo baroccaro (dopo Mozart e Beethoven si estenderà a Rossini e chissà, pure al melodramma) e, dopo il mercato discografico, si appresta a monopolizzare anche i palcoscenici. Cosa resterà allora del piacere del belcanto? Chiudo con le parole di Daniel Barenboim, relative a questa trionfante pratica delle esecuzioni filologiche: “Ho due problemi con il cosiddetto pensiero dell’esecuzione filologia. Prima di tutto mi disturba il fatto che si tratta di un movimento, quindi di un’ideologia, di una visione del mondo, che più che porsi domande si dà l’aria di conoscere già le risposte. E quindi limita la creatività umana. Ciò non toglie che vi siano molti musicisti straordinari, dotati di incredibile talento, fra i colleghi che vi aderiscono. Però questo movimento ha in un certo senso isolato alcuni singoli elementi – il suono, il tempo – come se fossero indipendenti l’uno dall’altro. Penso che questa sia una sciocchezza colossale. In secondo luogo, e lo dico senza nessuna ironia, questa ideologia è riuscita a farsi passare per progressista. Ecco perchè ha così tanto successo, ecco il motivo del suo trionfo. Ma come può essere progressista qualcosa che invita a guardare indietro, per vedere com’erano le cose in passato?”