La proposta di Ciro in Babilonia a Parigi è spunto per articolate riflessioni.
Quella circa l’esecuzione la lascio all’amico Duprez, come lascio a lui ogni riflessione e dovuto improperio sul fatto che gli impuniti baroccari abbiamo deciso di impadronirsi anche di Rossini, non contenti dello scempio che hanno fatto del repertorio barocco.
Abbiamo avuto lo scorso anno ad opera di Reneé Jacobs un bel Tancredi con strumenti originali e cantanti da comprimariato bavarese, adesso il Ciro, già qualche contro tenore ha cantato (si fa per dire) Aureliano, l’unica opera scritta da Rossini per un castrato e credo sia imminente l’ufficiale acquisizione delle altre opere serie non napoletane ossia Sigismondo ed il centone Eduardo e Cristina. Quanto ad Adelaide, pur senza intervento di baroccari l’infelice esecuzione pesarese era sulla medesima lunghezza d’onda del malcanto rossiniano, oggi assai praticato a Pesaro, in primis.
Non solo, ma stando ad una raccapricciante esecuzione delle arie di Arsace ad opera del signor Cencic, presto l’impostura si estenderà anche ai lavori napoletani di Rossini. Così presto avremo in scena un Malcolm dall’aspetto virile, che con grazia indossa il kilt e che canta con voce per timbro e volume di una ospite delle amiche mura di casa Verdi.
E poi che avremo?
Il fatto è che le prime opere di Rossini sono state trascurate. Devo dire che lo furono anche all’epoca di Rossini. Circolarono soprattutto nei teatri italiani, l’autore non le ritenne degne del Teatro des Italiens. Non conobbero fama internazionale Salvo il Tancredi che per altro circolava talmente rifatto e rimaneggiato, che della stesura rossiniana poco rimaneva. Anche se cantava Giuditta Pasta e il fatto bastava per giustificare ritocchi, aggiusti e tagli, impresti ed autoimpresti, se del caso.
Spesso l’autore le considerò fonti per autoimpresti e parodie. Con riferimento al Ciro il più famoso è riferito alla aria di Amira, assegnata nel 1819 ad Amaltea in una ripresa, sempre napoletana, del Mosè in Egitto.
Eppure risentite, non certo nell’esecuzione di Malgoire sono ben altro che semplici appunti per il futuro.
Il giudizio attuale tiene conto, ovvio, della conoscenza che abbiamo acquisito del Rossini tragico negli ultimi venti anni. Ossia del dopo. Poco, però del prima. La conoscenza dei melodrammi, eseguiti in scena negli anni del giovane Rossini potrebbe facilmente ridimensionare o, quanto meno, aiutare una più conscia lettura. Basta sentire di Cimarosa, gli Orazi e Curiazi, che precedono di tre lustri la produzione rossiniana o leggere lo spartito di Artemisia. E poi meriterebbero, credo, un approfondimento Zingarelli, Morlacchi, Mayr ed anche Mosca e Generali per trarre conclusioni definitive.
Però nel primo lavoro tragico abbiamo già tutti gli elementi, che andranno a fare di Rossini, Rossini.
Con riferimento al Ciro basta ascoltare le pagine di piglio eroico e di evidente sapore neoclassico riservate a Ciro ed all’antagonista Baldassare (parte di tenore baritonale tutt’altro che facile). Piglio eroico che con riferimento al protagonista trova il proprio contraltare nell’elemento elegiaco dell’aria del secondo atto “v’abbraccio vi stringo”. In questo i successivi travesti rossiniani da Tancredi ad Arsace non saranno altro che un ampliamento di uno modello già definito nel Ciro. Fra l’altro all’ascoltare, aduso a Rossini non sfuggirà come il protagonista maschile nella sortita canta dapprima quello che diverrà l’incipit del rondò di Cenerentola, poi la stretta della scena di Tancredi “non sa comprendere il mio dolore”, mentre nella scena di carcere finale l’andante diventerà a distanza di un anno, la sezione centrale dell’aria alternativa di Tancredi.
Ma sono sia pure in formato ridotto presenti tutti gli elementi dell’operismo serio rossiniano. Basta pensare gli elaborati accompagnamenti orchestrali alle arie solistiche, come il violino in quella di Amira al secondo atto. Mentre il corno accompagna ed introduce quella del primo atto sempre della protagonista femminile. Si percepisce come Rossini negli anni del conservatorio bolognese (troppo pochi come ebbe a dire Rossini medesimo) avesse letto, studiato, memorizzato la produzione strumentale del tempo. Di area tedesca in primis. Gli appellativi, al di là di una stereotipa biografia, hanno sempre un fondamento.
E ancora posseggono già la sigla rossiniana l’accento elegiaco riservato ai duetti degli innamorati coniugi ed alle arie di Amira (fra l’altro parte che richiede un registro acuto esteso e facile) è già quello che troverà ampliamento nel personaggio di Amenaide (pensato per la stessa interprete, Elisabetta Manfredini Guarmani) e completamento in Desdemona ed Elena, scritta per un’altra tipologia di soprano quello Cobran, ma che con gli opportuni trasporti, entrarono anche nel repertorio dei cosiddetti soprani assoluti. Categoria di cui, con riferimento a Rossini la Manfredini fu il prototipo.
E siccome Rossini fu sempre un ottimo giudice di sé stesso nel scegliere quel che da un lavoro all’altro meritava il trasferimento, le conseguenze sul valore del reietto Ciro sono dell’autore stesso.
Ciro è anche un modello di categorie vocali ed un grosso problema per gli esecutori vocali, attuali.
Modello perché lo schieramento vocale con un protagonista eroe amoroso affidato al contralto en travesti (quando non si disponeva del sopravvissuto Velluti, come accadde per Aureliano), una innamorata soprano assoluto ed un antagonista tenore baritonale si ripresenterà puntuale in ogni opera seria non scritta per Napoli. Spesso con gli stessi cantanti come Elisabetta Manfredini ed anche Marietta Marcolini.
Questo schieramento vocale ripetuto, quindi, sino al Falliero scaligero (1819) chiarisce quali fossero le tipologie vocali più diffuse e disponibili nei teatri italiani e con le quali gli autori dovevano misurarsi. E, per completezza, come i cast napoletani rappresentino un’eccezione e non una regola, con la conseguente difficoltà di esecuzione altrove dei lavori napoletani. Anche i cast di autori coevi a Rossini presentano lo stesso schieramento e gli stessi caratteri nei uoli protagonistici.
Va anche precisato e così veniamo al punto della difficoltà di esecuzione del primo Rossini che le scritture riservate alla Manfredini (ed in generale ai soprani assoluti) sono più acrobatiche e fiorite di quelle centrali e quasi prive di melisme dei contralti. Ciò con riferimento alle parti scritte per la Marcolini e Malanotte. Diversa la scrittura per Carolina Bassi primo Falliero, fioritissima e la più ardua riservata ad un musico.
Siamo ancora nella fase della cosiddetta coloratura lata e non minuta, nata quest’ultima secondo una tradizione prossima alla favola dagli eccessi di Giovan Battista Velluti, Arsace in Aurelianoin Palmira.
Cosa eseguisse e come intervenisse Vellutino lo sappiamo, purtroppo.
Che però, le parti dei prima amorosi siano sia nei recitativi che nelle arie prossimi al canovaccio è evidente ascoltando la musica, anche se Stendhal critica le fioriture del tardo operismo rossiniamo.
Oggi cosa significa eseguire Arsace piuttosto che Ciro o Tancredi intervenire sul testo, ampliare e diminuire, quindi, quello che l’autore ha scritto, ossia non limitarsi ad interpolazioni nei da capi e nelle riprese delle cabalette.
Che questa sia la corretta esecuzione, molto più interventista e radicale di quanto normalmente capita sulle scene lo comprovano gli interventi che per Giuditta Pasta, Tancredi vennero approntati, credo addirittura da Pacini oltre che da Rossini sul primo enunciato del testo musicale o gli interventi di Manuel Garcia, il tenore di Rossini sul personaggio di Almaviva per lo stesso Garcia pensato e composto in un’epoca, ufficialmente di coloratura minuta e non lata.
Oggi i cantanti non sono Manuel Garcia, oggi la tradizione, che nasceva dallo studio (i dieci anni di formazione anche musicale dei castrati, che proprio per questa attività ulteriore rispetto al canto venivano preparati) musicale è persa e se anche un cantante sapesse intervenire sul testo incapperebbe in un direttore d’orchestra il quale per certo non concorderebbe con l’idea di intervenire sul testo, non concorderebbe sugli interventi e, comunque non sarebbe in grado di “tenere” orchestra e palcoscenico nell’ipotesi di un paio di accellerando e di stentando non previsti, anche perché i primi spartiti rossiniani quanto ad agogica tacciono nella maniera più assoluta.
Non credo, ma vorrei essere smentito che coloro i quali affrontano o affronteranno nel futuro prossimo un lavoro tragico del primo Rossini, abbiano sapienza e cultura per intervenire diminuire le parti e tanto meno l’umiltà per farlo in ragione delle caratteristiche e capacità del designato esecutore.