E’ sempre più frequente, nel leggere recensioni o commenti, su quotidiani, stampa specializzata o forum tematici (ma anche ascoltando accidentalmente brani di conversazioni altrui nei foyer dei teatri, durante gli intervalli o al termine della rappresentazione) imbattersi in una parola, una frase, che è divenuta un feticcio: l’interpretazione. In essa è racchiuso uno specifico approccio allo spettacolo musicale, una vera e propria ideologia, una precisa tendenza critica ed estetica oggi tornata inaspettatamente di moda, quasi rinata dalle retoriche esteriorità “veriste” (dove essa affonda le proprie radici storiche e culturali), dopo che la renaissance di un certo tipo di belcanto, sembrava aver finalmente mutato gusto a interpreti e spettatori dell’opera lirica. Tuttavia mentre nei primi decenni del secolo XX, tale atteggiamento esecutivo era motivato da un preciso stile e gusto, da un certo sentire comune, da una determinata idealità estetica, da specifiche suggestioni culturali e storiche (e quindi – seppure ai nostri orecchi possa sembrare a volte insopportabilmente caricato, retorico e rozzo – frutto di una volontà e di una scelta consapevole e portatore di una sua propria validità e dignità artistica), oggi è invece il risultato maldestro di carenze tecniche, decadenze precoci, omologazione dei repertori. Ma di questi aspetti darò conto in seguito.
In cosa si incarna questo spettro dell’interpretazione? Esso è in realtà, oggi, un calderone in cui si mescola una pozione indigesta, composta da ogni nequizia possibile, buona solo a trasformare il belcanto (inteso in senso lato, letterale, astorico) in brutto canto, a negarne, cioè, ogni valore di piacevolezza estetica, di correttezza formale, di eleganza. Una accozzaglia di ingredienti disparati (provenienti dalle dispense più diverse e lontane tra loro nel tempo e nel gusto) che unisce il verismo più cafone alla retorica d’annunziana, le deliranti sceneggiate alla Sarah Bernhardt alle caccole “di tradizione”, un preteso declamato di ascendenza più o meno germanica (che è in realtà più simile ad un più semplice e orrido parlato) al bercio più volgare, il tutto accompagnato, naturalmente, da eccessi scenici di ogni specie (e in ciò ci sarebbero da chiamare in causa anche i tanti registi che si occupano di opera non avendone la preparazione, perché non in possesso delle necessarie e basilari cognizioni musicali per affrontarla ovvero perchè non sono in grado di individuare nel teatro musicale un linguaggio differente e per certi versi opposto, a quello della prosa). E’ in nome di questa interpretazione (o meglio di questa interpretazione dell’interpretazione – scusate il bisticcio..) che viene giustificata ogni mancanza tecnica, ogni approssimazione di linguaggio, ogni inutile esteriorizzazione di ciò che l’esecutore insipiente non riesce ad esprimere (come dovrebbe) con la sola musica. E’, in ultima istanza, il considerare la musica come parte secondaria, come mero accessorio dell’opera, ritenendo di pari o addirittura di maggiore pregnanza, la resa esclusivamente drammaturgica (cioè tradotta in linguaggio essenzialmente attoriale o registico) del testo o del personaggio. E’ evidente la scorrettezza intellettuale di tale assunto che tende a relativizzare i confini tra teatro di prosa e teatro musicale, e che si risolve nella ricerca dell’effetto drammatico e della caratterizzazione realistica ad ogni costo, in un genere che è, al contrario, caratterizzato da una totale astrattezza e artificiosità di costruzione (banalmente: i personaggi cantano, invece di parlare e di questo si dovrebbe pur tener conto). Questa accentuazione degli aspetti drammatici (rectius drammaturgici) oltre che scorretta nei presupposti generali, lo è, però, ancora di più nei risultati concreti. Infatti, dato atto della necessità di far prevalere la costruzione formale e musicale sugli aspetti di verosimiglianza teatrale in qualsiasi genere del repertorio operistico (da Monteverdi a Henze), in alcuni di esso, più che in altri, la ricerca del dramma, porta ad effetti devastanti sul piano estetico, ed al completo fraintendimento del genere. Ricercare, ad esempio, il dramma, la crudezza, il realismo nell’opera settecentesca e belcantista (includendo anche Donizetti e Bellini) porta a risultati inaccettabili. Quel repertorio, infatti, che trova le sue radici prime nell’astrattezza barocca (e che poi sfocerà nelle idealità del romanticismo, che resterà comunque un’astrazione), si risolve essenzialmente nella vocalità, nella meraviglia o nella bellezza formale e ideale. Ed è evidente fin dalla struttura: i numeri chiusi, le arie con da capo, le variazioni e le cadenze lasciate al gusto e alle capacità del cantante, gli stessi ruoli affidati a castrati o a mezzosoprani e contralti en travesti (che più di ogni altra cosa testimonia l’antirealismo del’opera barocca, di quella neoclassica e del belcanto), la costruzione musicale e strumentale, il colore orchestrale (che non tende a esteriorizare effetti ed affetti, ma a trasfigurarli in suono, razionalizzandoli e traducendoli in chiave evocativa). Negare questo significa commettere una grave scorrettezza e falsificazione. Proprio in questo repertorio sono più evidenti i danni recati da questo atteggiamento: si pensi alle poche opere barocche che venivano rappresentate fino agli anni ‘50/60 dove, in nome del realismo (e in base a certe suggestioni veristiche e a stolidi modelli teutonici), le tessiture dei castrati erano abbassate di un’ottava secca, nella falsissima convinzione che esse così si adattassero perfettamente alla tessitura baritonale (o bassa), ignorando poi i gravi problemi che la voce poco agile di quelle chiavi, malissimo si concilia con le necessità della coloratura (ma all’epoca questa veniva espunta, perché ritenuta non “realistica”). Ecco quindi gli orribili Giulio Cesare in Egitto con bassi e baritoni dalle voci stentoree e inchiodate, prive di agilità e simili (nelle rare cadenze eseguite) a pentole di fagioli borbottanti (altro che meraviglia astratta della pura vocalità!); oppure i vari Orfeo ed Euridice con protagonisti maschili perché sembrava improbabile la figura del cantore innamorato affidato a voce femminile (quanti pregiudizi e quanta ignoranza, come se Orfeo fosse una specie di testosteronico Siegfried). E proprio oggi, quando maggiore dovrebbe essere l’attenzione allo stile (avendo a disposizione, tra l’altro, i più vasti e completi strumenti critici, innegabile traguardo e conquista degli studi filologici), quando non ci sono più le “scuse e giustificazioni” dettate dal gusto dell’epoca (motivo per cui tanto più gravi e incomprensibili appaiono tali “manomissioni”), queste fantasiose e grottesche trasposizioni sono tornate alla ribalta (si pensi al recentissimo Orfeo di Bologna, totalmente stravolto dagli Alagna) e sempre più spesso, parallelamente alla diffusione di questa rinata tendenza a valorizzare l’interpretazione “attoriale”, le opere vengono tagliate o riscritte o riassemblate per “esigenze registiche” (in un recente Don Giovanni salisburghese non è Leporello a cantare “notte e giorno faticar”, ma il seduttore, travestito da servo…con tanti saluti al libretto e agli equilibri della musica di Mozart, ma con il solito applauso dei soliti pubblici lobotomizzati e dei soliti critici in mala fede, sordi alla musica, ma in visibilio per il “grande effetto teatrale”), ulteriore conferma di come la parte musicale sia concepita come meramente accessoria alle personalissime perversioni teatrali del regista.
Questo atteggiamento però, non nasce per caso, come un improvviso ritorno a prassi esecutive sostanzialmente veriste (anche se abilmente camuffate e ricollegate a pretestuose e più nobili ascendenze nord-europee) ed ha una cospicua schiera di fiancheggiatori, sostenitori e propagandisti. Costoro, nel bruciore intransigente dei loro pregiudizi, denigrano – a prescindere – tutta la tradizione della scuola vocale italiana (ossia la vocalità belcantista), ed in nome di una confusa e imprecisata “esterofilia” musicale, la giudicano in toto, marginale e provinciale, e comunque sopravvalutata rispetto alla sua reale importanza storica. Essi vedono nel “declamato”, quando non nel “parlato”, il mezzo attraverso il quale “valorizzare” la drammaticità teatrale di un testo (che, a loro modo di vedere, è sempre stata mortificata dall’emissione calda e arrotondata, rifinita e dipinta, del belcanto italiano) richiamandosi alla stessa prassi esecutiva alla quale intendevano rifarsi i nostri veristi nella ricerca della realtà vera: il teatro musicale wagneriano (seppur con marchiane incomprensioni) e l’espressionismo tedesco. Dagli stessi presupposti, derivava una vera e propria scuola vocale (per lo più teutonica o anglosassone) fondata sulla parola declamata e sul suo significato, più che sul suono e la musica. E ciò è quantomeno discutibile nell’opera lirica (volenti o nolenti, infatti, sempre di musica si tratta), ed è sempre stato il principale motivo di critica di chi sostiene che la vocalità all’italiana sia la più corretta per affrontare l’opera (poiché la più idonea a restituire la musicalità del testo e le sfumature espressive, senza forzare e andare al di là della oggettiva artificiosità del genere). Ovviamente i fieri denigratori della “provincia” belcantista si guardano bene dal riflettere sulle assonanze evidenti tra la loro fonte di ispirazione e il canto verista (con tutti i suoi plateali orpelli ed effetti, del tutto legittimi se circoscritti al gusto dell’epoca in cui sono nati, ma irrimediabilmente “fuori luogo”, se riproposti oggi) della stessa Italietta da cui rifuggono. E neppure si accorgono di come somigli moltissimo la loro ricerca e valorizzazione dell’interpretazione del personaggio (più che la sua esecuzione squisitamente musicale) a quelle licenze che in modo graduale si sono fatte strada nella storia della vocalità e che hanno introdotto in essa lo scarso rispetto dei segni d’espressione vergati dall’autore, la plateale esposizione dei mezzi vocali (attraverso acuti pettoruti e sbattuti in assordanti gare di decibel, incuranti di ogni gusto ed equilibrio), lo sconfinamento nel parlato più triviale (anche questo sdoganato nelle loro elucubrazioni), nell’urlo, nel bercio (come se la musica da sola non bastasse ad esprimere rabbia, o derisione, o dolore etc..). E questo, a voler essere onesti, non è neppure ascrivibile al verismo in quanto tale (all’epoca, infatti, si cantava così per scelta, per gusto forse discutibile, non per mancanza di preparazione), ma allo scadimento tecnico e stilistico. Al contrario essi sono convinti di perseguire una sorta di rinnovamento dell’opera (che secondo loro dovrebbe quasi prescindere dalle note scritte) al fine di trasformarla in un qualcosa di differente da ciò che è – cioè una costruzione artificiale ed astratta basata sulla forma – a favore di una ricercata e sbandierata caratterizzazione drammaturgica, prossima alla prosa. E tale è il fraintendimento e il pregiudizio, che vengono riproposti da costoro, a modello e ad esempio, prodotti tra i più disparati ed improbabili pur di allontanarsi dalla aborrita “provincia” italiana: e si legittimano scelte esecutive slave, teutoniche, anglosassoni che spesso suonano come ostrogote a chi nel canto ricerca (come sarebbe logico e corretto) soprattutto musica. Per loro meglio è certo Verdi tedesco (e pure anglosassone) stravolto e wagnerizzato senza alcuno scrupolo, reso brutale e volgare, stentoreo e retorico (guarda che caso…si potrebbero usare le stesse parole per il Verdi del peggior Del Monaco, quando non tenuto a bada dall’autorità direttoriale), fatto di Lady Macbeth con elmetto da valchiria (dagli acuti inchiodati e fissi, e le voci stridenti come unghie sulla lavagna) o di tenori concitati e retorici (con voce che si strangola ad ogni salita in zona acuta, o che si rompe in suoni rochi e singhiozzanti, tutti “anima e cuore”) o di bassi e baritoni mugghianti privi di ogni idea di misura e finezza; ma anche certo Puccini (sciocchi noi ad esaltarne gli aspetti lirici e mediterranei, sbagliatissimo…vuoi mettere farne l’epigono di Korngold, Krenek o persino Kurt Weill); per non parlare di Mozart che, pare, la scuola vocale italiana avrebbe rovinato (è infatti noto che il buon Wolfgang scrivesse i ruoli della Contessa o di Donn’Anna immaginandosi la “delicatezza” di una Silja o di una Meier, o il “bel colore” dei sopranini filologici). E nella loro vuota esterofilia (vuota perchè aderire a certi modelli solo per “scelte ideologiche” è un atteggiamento intellettualmente mortificante), mentre si scandalizzano del Wagner italiano (che ha invero, una bella tradizione esecutiva, purtroppo poco documentata in disco) e dei cantanti di scuola italiana (bestemmia) che lo affrontano (finalmente con morbidezza e colore, senza strillare…pardon declamare), accettano di buon grado le traduzioni tedesche o inglesi di Verdi e Puccini, forse che il “declamato” ha maggiore pregnanza in una lingua straniera? A margine verrebbe poi da contestare (oltre l’irrisolta questione verista) come non molto limpido, anzi piuttosto confuso, sia proprio l’utilizzo e l’abuso del termine “declamazione”. Il canto declamato, infatti, è – come dice la parola stessa – una tecnica di canto ben precisa, ed è cosa ben diversa dal generico “parlare” intonato, lasciandosi andare a berci e affettazione retorica. Oltre a ciò andrebbe considerato che non vi è un’unica tipologia di declamazione, valida per tutti i ruoli e tutti i generi, ma che, a seconda dell’epoca storica, essa si attaglia in modo differente: cosa diversa è infatti il recitativo declamato della tragedia neoclassica (da Gluck a Spontini e Cherubini, con varie peculiarità e differenze, s’intende), da quello di certi ruoli straussiani, e così pure è diverso il declamato del Boris (e in generale quello di matrice slava) da quello di marca verista o contemporanea. Altro discorso andrebbe poi fatto su Wagner, spesso preso a campione dei “declamatori”, ma che in realtà, con partiture alla mano e senza pregiudizi, andrebbe cantanto e risolto nella vocalità dalla prima nota di Die Feen, all’ultimo accordo di Parsifal (si confonde spesso, infatti, ed in modo quantomeno colpevole, il wort-ton-drama e l’importanza della parola cantata – e sottolineo cantata – con la pretesa supremazia del testo: argomento usato come comoda scusa per evitare e svicolarsi dalle insidiose richieste tecniche e vocali della scrittura wagneriana – non è un caso, tra l’altro, che Wagner indichi tra i suoi modelli proprio Vincenzo Bellini). La cosa più curiosa, poi, è che costoro non solo ritengono la vocalità italiana inadeguata al repertorio tedesco, slavo, francese (cosa contestabilissima e su cui ci sarebbe molto da discutere), ma arrivano a sostenere che lo sia anche nel melodramma o nell’opera seria settecentesca o in Mozart! E ci sarebbe da sorridere a questi assunti, se solo non si dovesse piangere nell’ascoltare i frequentissimi esempi pratici di tali pregiudizi, nei teatri e nei dischi! I risultati di questa ricerca di drammaticità a tutti i costi, di questa invasione di un malcompreso concetto di “declamato” sino a Rossini e Donizetti e Verdi (ma anche in Mozart, Gluck, Haendel), sono oggi assai visibili. E le ragioni sottese, che vengono ovviamente sottaciute, sono, al pari degli effetti, palesi ed evidenti. Il sospetto, che è poi certezza, è che il ricorso a questi stratagemmi interpretativi (che tali sono), non sia imputabile ad un mutato cambiamento estetico connaturato all’evoluzione storica (nella fattispecie poi, si dovrebbe parlare più correttamente di involuzione), bensì ad esigenze più prosaiche, pratiche, quasi banali. Si tratta di deficienze tecniche: mancanze, approssimazioni e incomprensioni. Repertori allargati, ruoli affrontati senza adeguata preparazione, mancanza di tempo e studio, imposizioni di agenzie e case discografiche. A ciò va naturalmente aggiunta la crescita di un’ignoranza generalizzata, proporzionale a certa presunzione e a oramai inevitabile decadenza. In sostanza in scena si urla e si parla, si piroetta e si corre, perchè non si sa cantare. E i pubblici applaudono scambiando per pregio il difetto, prendendo per interpretazione una comoda scappatoia. Ed è sempre stato così: le gigionate, le caccole, i tic, i falsetti, le smorfie, le mossette, gli sternuti, gli urletti, le risatazze, i rantolii dei vari Corena, Gobbi et similia, servivano a distrarre il pubblico (che allora almeno era in grado di fischiare) dalle mediocri prestazioni vocali (esempio orribile è il Sagrestano di Corena della Tosca diretta da Karajan – entrambe le edizioni). Ed è così pure oggi. Gli esempi sono molteplici. La Lucia della Dessay (che aveva un tempo voce e tecnica impeccabile) è uno spettacolo indecente di smorfie invasate, seni lordi di sangue che fuoriescono da vesti strappate, lavacri e abluzioni (la diva si sciacqua i capelli in una specie di abbeveratoio, mentre l’orchestra accenna la melodia di “verranno a te sull’aure”, rovinando irrimediabilmente l’effetto evocativo di questo rimando tematico – nella psiche sconvolta di Lucia – all’unico suo momento di felicità vera, con gli scrosci dell’acqua), urla belluine (in Donizetti, in Lucia…non Fedora o Santuzza…) prima della cabaletta finale. L’immancabile bercio della maggior parte dei baritoni in circolazione, in corrispondenza delle frasi “e tu ripeti il giuro” (Simon Boccanegra) e “la pace dei sepolcri” (Don Carlos). La continuità della linea di canto orribilmente spezzata dall’artificioso rantolio della voce di Alvarez nell’affrontare “quando le sere al placido” nella Luisa Miller di Parma. I fiati inesistenti e i respiri presi a casaccio della Netrebko nella Traviata salisburghese (in cui lei, tra l’altro, è la migliore, perché su Rizzi e Villazon si dovrebbe infierire..), o la sua Elvira nei Puritani al Met. Per non parlare della Gheorgiu, la cui bellezza è inversamente proporzionale alla bravura, di cui ho ascoltato una Traviata e un Boccanegra che sembravano riscritti da Mascagni. E così via fino agli esiti grotteschi della Theodossiu nell’ultima Lucrezia Borgia bergamasca, dove nel finale si aggirava come una tarantolata per la scena sbattendo i pugni sulle porte e urlando come un’isterica (annovero quella esibizione nei primi posti della mia personalissima classifica degli orrori, appena dopo un “esultate” di Del Monaco eseguito senza mai prendere fiato, senza pause, tutto fffffff…davvero “impressionante”). Ed è solo per restare ai divi dell’odierno star system operistico. Tutto questo, eppure – che a raccontarlo svela toni sapidi e grotteschi – è costantemente giustificato dal feticcio dell’interpretazione. A qualche (rarissima) critica sottovoce, in merito a certi squilibri vocali, si risponde che le carenze vengono “riscattate dalla splendida/sofferta/intensa/magistrale/sentita interpretazione”. E chi critica un pò di più e con maggiore cognizione di causa viene zittito, come un facinoroso o un attaccabrighe. Lo si accusa di essere un vuoto formalista che si attacca alle “notine” (vera ossessione dei “declamatofili” odierni), alle forcelle, al trillo, alla terzina, e ignora “il personaggio”. Con la differenza che le note, i trilli e le forcelle, sono scritti e andrebbero eseguiti, poichè proprio nei segni d’espressione l’autore ha voluto indicare la vera linea interpretativa, senza bisogno di esteriorizzare sentimenti e sensazioni già contenuti nella scrittura (ma ovviamente tradotti in note). E non è un formalismo stolido ricercare tali segni in ogni esecuzione, ma piuttosto è l’unica strada per rendere la precisa dimensione voluta dall’autore. La correttezza tecnica è presupposto essenziale ad una qualsiasi esecuzione, non è un capriccio nostalgico, perché solo se l’interprete rispetta i segni (da cui non è pensabile prescindere) può comunicare quella che nel belcanto è la “poetica della meraviglia” (ma il discorso non vale solo per il belcanto propriamente detto, è estendibile ad ogni genere poiché identico ne è il presupposto: la traduzione – e la razionalizzazione – in chiave musicale di un’idea, non la verosimiglianza). Certo che è difficile, certo che è più comoda la via di fuga del bercio o della sceneggiata strappa applausi. Certo che l’acuto stentoreo e fragoroso può impressionare certuni. Certo che l’approccio attoriale può conquistare qualche sprovveduto digiuno di conoscenze musicali. Certo. Ma non si dimentichi che l’opera è prima di tutto musica e canto e vocalità. La resa drammatica del testo è conseguenza dei presupposti musicali, cioè, attraverso il gusto e lo stile (e seguendo le importantissime indicazioni espressive dell’autore, che non sono – come ironizza taluno – fissazioni pedanti di nostalgici) l’interprete esprime il mondo di idee e di affetti che il compositore ha voluto rappresentare, senza bisogno di mutuare da altri linguaggi elementi e formule espressive. E che si tratti dell’opera barocca, della tragédie lyrique, dell’opera neoclassica, del romanticismo, del verismo, dell’espressionismo etc… non viene mai meno – non può mai venir meno – il carattere antirealistico della stessa e la conseguente necessità di circoscriverla entro i confini che le sono proprio, ossia la musica, le sue costruzioni formali (per quanto rigide o libere esse siano), la correttezza espressiva e l’adeguatezza tecnica.
In cosa si incarna questo spettro dell’interpretazione? Esso è in realtà, oggi, un calderone in cui si mescola una pozione indigesta, composta da ogni nequizia possibile, buona solo a trasformare il belcanto (inteso in senso lato, letterale, astorico) in brutto canto, a negarne, cioè, ogni valore di piacevolezza estetica, di correttezza formale, di eleganza. Una accozzaglia di ingredienti disparati (provenienti dalle dispense più diverse e lontane tra loro nel tempo e nel gusto) che unisce il verismo più cafone alla retorica d’annunziana, le deliranti sceneggiate alla Sarah Bernhardt alle caccole “di tradizione”, un preteso declamato di ascendenza più o meno germanica (che è in realtà più simile ad un più semplice e orrido parlato) al bercio più volgare, il tutto accompagnato, naturalmente, da eccessi scenici di ogni specie (e in ciò ci sarebbero da chiamare in causa anche i tanti registi che si occupano di opera non avendone la preparazione, perché non in possesso delle necessarie e basilari cognizioni musicali per affrontarla ovvero perchè non sono in grado di individuare nel teatro musicale un linguaggio differente e per certi versi opposto, a quello della prosa). E’ in nome di questa interpretazione (o meglio di questa interpretazione dell’interpretazione – scusate il bisticcio..) che viene giustificata ogni mancanza tecnica, ogni approssimazione di linguaggio, ogni inutile esteriorizzazione di ciò che l’esecutore insipiente non riesce ad esprimere (come dovrebbe) con la sola musica. E’, in ultima istanza, il considerare la musica come parte secondaria, come mero accessorio dell’opera, ritenendo di pari o addirittura di maggiore pregnanza, la resa esclusivamente drammaturgica (cioè tradotta in linguaggio essenzialmente attoriale o registico) del testo o del personaggio. E’ evidente la scorrettezza intellettuale di tale assunto che tende a relativizzare i confini tra teatro di prosa e teatro musicale, e che si risolve nella ricerca dell’effetto drammatico e della caratterizzazione realistica ad ogni costo, in un genere che è, al contrario, caratterizzato da una totale astrattezza e artificiosità di costruzione (banalmente: i personaggi cantano, invece di parlare e di questo si dovrebbe pur tener conto). Questa accentuazione degli aspetti drammatici (rectius drammaturgici) oltre che scorretta nei presupposti generali, lo è, però, ancora di più nei risultati concreti. Infatti, dato atto della necessità di far prevalere la costruzione formale e musicale sugli aspetti di verosimiglianza teatrale in qualsiasi genere del repertorio operistico (da Monteverdi a Henze), in alcuni di esso, più che in altri, la ricerca del dramma, porta ad effetti devastanti sul piano estetico, ed al completo fraintendimento del genere. Ricercare, ad esempio, il dramma, la crudezza, il realismo nell’opera settecentesca e belcantista (includendo anche Donizetti e Bellini) porta a risultati inaccettabili. Quel repertorio, infatti, che trova le sue radici prime nell’astrattezza barocca (e che poi sfocerà nelle idealità del romanticismo, che resterà comunque un’astrazione), si risolve essenzialmente nella vocalità, nella meraviglia o nella bellezza formale e ideale. Ed è evidente fin dalla struttura: i numeri chiusi, le arie con da capo, le variazioni e le cadenze lasciate al gusto e alle capacità del cantante, gli stessi ruoli affidati a castrati o a mezzosoprani e contralti en travesti (che più di ogni altra cosa testimonia l’antirealismo del’opera barocca, di quella neoclassica e del belcanto), la costruzione musicale e strumentale, il colore orchestrale (che non tende a esteriorizare effetti ed affetti, ma a trasfigurarli in suono, razionalizzandoli e traducendoli in chiave evocativa). Negare questo significa commettere una grave scorrettezza e falsificazione. Proprio in questo repertorio sono più evidenti i danni recati da questo atteggiamento: si pensi alle poche opere barocche che venivano rappresentate fino agli anni ‘50/60 dove, in nome del realismo (e in base a certe suggestioni veristiche e a stolidi modelli teutonici), le tessiture dei castrati erano abbassate di un’ottava secca, nella falsissima convinzione che esse così si adattassero perfettamente alla tessitura baritonale (o bassa), ignorando poi i gravi problemi che la voce poco agile di quelle chiavi, malissimo si concilia con le necessità della coloratura (ma all’epoca questa veniva espunta, perché ritenuta non “realistica”). Ecco quindi gli orribili Giulio Cesare in Egitto con bassi e baritoni dalle voci stentoree e inchiodate, prive di agilità e simili (nelle rare cadenze eseguite) a pentole di fagioli borbottanti (altro che meraviglia astratta della pura vocalità!); oppure i vari Orfeo ed Euridice con protagonisti maschili perché sembrava improbabile la figura del cantore innamorato affidato a voce femminile (quanti pregiudizi e quanta ignoranza, come se Orfeo fosse una specie di testosteronico Siegfried). E proprio oggi, quando maggiore dovrebbe essere l’attenzione allo stile (avendo a disposizione, tra l’altro, i più vasti e completi strumenti critici, innegabile traguardo e conquista degli studi filologici), quando non ci sono più le “scuse e giustificazioni” dettate dal gusto dell’epoca (motivo per cui tanto più gravi e incomprensibili appaiono tali “manomissioni”), queste fantasiose e grottesche trasposizioni sono tornate alla ribalta (si pensi al recentissimo Orfeo di Bologna, totalmente stravolto dagli Alagna) e sempre più spesso, parallelamente alla diffusione di questa rinata tendenza a valorizzare l’interpretazione “attoriale”, le opere vengono tagliate o riscritte o riassemblate per “esigenze registiche” (in un recente Don Giovanni salisburghese non è Leporello a cantare “notte e giorno faticar”, ma il seduttore, travestito da servo…con tanti saluti al libretto e agli equilibri della musica di Mozart, ma con il solito applauso dei soliti pubblici lobotomizzati e dei soliti critici in mala fede, sordi alla musica, ma in visibilio per il “grande effetto teatrale”), ulteriore conferma di come la parte musicale sia concepita come meramente accessoria alle personalissime perversioni teatrali del regista.
Questo atteggiamento però, non nasce per caso, come un improvviso ritorno a prassi esecutive sostanzialmente veriste (anche se abilmente camuffate e ricollegate a pretestuose e più nobili ascendenze nord-europee) ed ha una cospicua schiera di fiancheggiatori, sostenitori e propagandisti. Costoro, nel bruciore intransigente dei loro pregiudizi, denigrano – a prescindere – tutta la tradizione della scuola vocale italiana (ossia la vocalità belcantista), ed in nome di una confusa e imprecisata “esterofilia” musicale, la giudicano in toto, marginale e provinciale, e comunque sopravvalutata rispetto alla sua reale importanza storica. Essi vedono nel “declamato”, quando non nel “parlato”, il mezzo attraverso il quale “valorizzare” la drammaticità teatrale di un testo (che, a loro modo di vedere, è sempre stata mortificata dall’emissione calda e arrotondata, rifinita e dipinta, del belcanto italiano) richiamandosi alla stessa prassi esecutiva alla quale intendevano rifarsi i nostri veristi nella ricerca della realtà vera: il teatro musicale wagneriano (seppur con marchiane incomprensioni) e l’espressionismo tedesco. Dagli stessi presupposti, derivava una vera e propria scuola vocale (per lo più teutonica o anglosassone) fondata sulla parola declamata e sul suo significato, più che sul suono e la musica. E ciò è quantomeno discutibile nell’opera lirica (volenti o nolenti, infatti, sempre di musica si tratta), ed è sempre stato il principale motivo di critica di chi sostiene che la vocalità all’italiana sia la più corretta per affrontare l’opera (poiché la più idonea a restituire la musicalità del testo e le sfumature espressive, senza forzare e andare al di là della oggettiva artificiosità del genere). Ovviamente i fieri denigratori della “provincia” belcantista si guardano bene dal riflettere sulle assonanze evidenti tra la loro fonte di ispirazione e il canto verista (con tutti i suoi plateali orpelli ed effetti, del tutto legittimi se circoscritti al gusto dell’epoca in cui sono nati, ma irrimediabilmente “fuori luogo”, se riproposti oggi) della stessa Italietta da cui rifuggono. E neppure si accorgono di come somigli moltissimo la loro ricerca e valorizzazione dell’interpretazione del personaggio (più che la sua esecuzione squisitamente musicale) a quelle licenze che in modo graduale si sono fatte strada nella storia della vocalità e che hanno introdotto in essa lo scarso rispetto dei segni d’espressione vergati dall’autore, la plateale esposizione dei mezzi vocali (attraverso acuti pettoruti e sbattuti in assordanti gare di decibel, incuranti di ogni gusto ed equilibrio), lo sconfinamento nel parlato più triviale (anche questo sdoganato nelle loro elucubrazioni), nell’urlo, nel bercio (come se la musica da sola non bastasse ad esprimere rabbia, o derisione, o dolore etc..). E questo, a voler essere onesti, non è neppure ascrivibile al verismo in quanto tale (all’epoca, infatti, si cantava così per scelta, per gusto forse discutibile, non per mancanza di preparazione), ma allo scadimento tecnico e stilistico. Al contrario essi sono convinti di perseguire una sorta di rinnovamento dell’opera (che secondo loro dovrebbe quasi prescindere dalle note scritte) al fine di trasformarla in un qualcosa di differente da ciò che è – cioè una costruzione artificiale ed astratta basata sulla forma – a favore di una ricercata e sbandierata caratterizzazione drammaturgica, prossima alla prosa. E tale è il fraintendimento e il pregiudizio, che vengono riproposti da costoro, a modello e ad esempio, prodotti tra i più disparati ed improbabili pur di allontanarsi dalla aborrita “provincia” italiana: e si legittimano scelte esecutive slave, teutoniche, anglosassoni che spesso suonano come ostrogote a chi nel canto ricerca (come sarebbe logico e corretto) soprattutto musica. Per loro meglio è certo Verdi tedesco (e pure anglosassone) stravolto e wagnerizzato senza alcuno scrupolo, reso brutale e volgare, stentoreo e retorico (guarda che caso…si potrebbero usare le stesse parole per il Verdi del peggior Del Monaco, quando non tenuto a bada dall’autorità direttoriale), fatto di Lady Macbeth con elmetto da valchiria (dagli acuti inchiodati e fissi, e le voci stridenti come unghie sulla lavagna) o di tenori concitati e retorici (con voce che si strangola ad ogni salita in zona acuta, o che si rompe in suoni rochi e singhiozzanti, tutti “anima e cuore”) o di bassi e baritoni mugghianti privi di ogni idea di misura e finezza; ma anche certo Puccini (sciocchi noi ad esaltarne gli aspetti lirici e mediterranei, sbagliatissimo…vuoi mettere farne l’epigono di Korngold, Krenek o persino Kurt Weill); per non parlare di Mozart che, pare, la scuola vocale italiana avrebbe rovinato (è infatti noto che il buon Wolfgang scrivesse i ruoli della Contessa o di Donn’Anna immaginandosi la “delicatezza” di una Silja o di una Meier, o il “bel colore” dei sopranini filologici). E nella loro vuota esterofilia (vuota perchè aderire a certi modelli solo per “scelte ideologiche” è un atteggiamento intellettualmente mortificante), mentre si scandalizzano del Wagner italiano (che ha invero, una bella tradizione esecutiva, purtroppo poco documentata in disco) e dei cantanti di scuola italiana (bestemmia) che lo affrontano (finalmente con morbidezza e colore, senza strillare…pardon declamare), accettano di buon grado le traduzioni tedesche o inglesi di Verdi e Puccini, forse che il “declamato” ha maggiore pregnanza in una lingua straniera? A margine verrebbe poi da contestare (oltre l’irrisolta questione verista) come non molto limpido, anzi piuttosto confuso, sia proprio l’utilizzo e l’abuso del termine “declamazione”. Il canto declamato, infatti, è – come dice la parola stessa – una tecnica di canto ben precisa, ed è cosa ben diversa dal generico “parlare” intonato, lasciandosi andare a berci e affettazione retorica. Oltre a ciò andrebbe considerato che non vi è un’unica tipologia di declamazione, valida per tutti i ruoli e tutti i generi, ma che, a seconda dell’epoca storica, essa si attaglia in modo differente: cosa diversa è infatti il recitativo declamato della tragedia neoclassica (da Gluck a Spontini e Cherubini, con varie peculiarità e differenze, s’intende), da quello di certi ruoli straussiani, e così pure è diverso il declamato del Boris (e in generale quello di matrice slava) da quello di marca verista o contemporanea. Altro discorso andrebbe poi fatto su Wagner, spesso preso a campione dei “declamatori”, ma che in realtà, con partiture alla mano e senza pregiudizi, andrebbe cantanto e risolto nella vocalità dalla prima nota di Die Feen, all’ultimo accordo di Parsifal (si confonde spesso, infatti, ed in modo quantomeno colpevole, il wort-ton-drama e l’importanza della parola cantata – e sottolineo cantata – con la pretesa supremazia del testo: argomento usato come comoda scusa per evitare e svicolarsi dalle insidiose richieste tecniche e vocali della scrittura wagneriana – non è un caso, tra l’altro, che Wagner indichi tra i suoi modelli proprio Vincenzo Bellini). La cosa più curiosa, poi, è che costoro non solo ritengono la vocalità italiana inadeguata al repertorio tedesco, slavo, francese (cosa contestabilissima e su cui ci sarebbe molto da discutere), ma arrivano a sostenere che lo sia anche nel melodramma o nell’opera seria settecentesca o in Mozart! E ci sarebbe da sorridere a questi assunti, se solo non si dovesse piangere nell’ascoltare i frequentissimi esempi pratici di tali pregiudizi, nei teatri e nei dischi! I risultati di questa ricerca di drammaticità a tutti i costi, di questa invasione di un malcompreso concetto di “declamato” sino a Rossini e Donizetti e Verdi (ma anche in Mozart, Gluck, Haendel), sono oggi assai visibili. E le ragioni sottese, che vengono ovviamente sottaciute, sono, al pari degli effetti, palesi ed evidenti. Il sospetto, che è poi certezza, è che il ricorso a questi stratagemmi interpretativi (che tali sono), non sia imputabile ad un mutato cambiamento estetico connaturato all’evoluzione storica (nella fattispecie poi, si dovrebbe parlare più correttamente di involuzione), bensì ad esigenze più prosaiche, pratiche, quasi banali. Si tratta di deficienze tecniche: mancanze, approssimazioni e incomprensioni. Repertori allargati, ruoli affrontati senza adeguata preparazione, mancanza di tempo e studio, imposizioni di agenzie e case discografiche. A ciò va naturalmente aggiunta la crescita di un’ignoranza generalizzata, proporzionale a certa presunzione e a oramai inevitabile decadenza. In sostanza in scena si urla e si parla, si piroetta e si corre, perchè non si sa cantare. E i pubblici applaudono scambiando per pregio il difetto, prendendo per interpretazione una comoda scappatoia. Ed è sempre stato così: le gigionate, le caccole, i tic, i falsetti, le smorfie, le mossette, gli sternuti, gli urletti, le risatazze, i rantolii dei vari Corena, Gobbi et similia, servivano a distrarre il pubblico (che allora almeno era in grado di fischiare) dalle mediocri prestazioni vocali (esempio orribile è il Sagrestano di Corena della Tosca diretta da Karajan – entrambe le edizioni). Ed è così pure oggi. Gli esempi sono molteplici. La Lucia della Dessay (che aveva un tempo voce e tecnica impeccabile) è uno spettacolo indecente di smorfie invasate, seni lordi di sangue che fuoriescono da vesti strappate, lavacri e abluzioni (la diva si sciacqua i capelli in una specie di abbeveratoio, mentre l’orchestra accenna la melodia di “verranno a te sull’aure”, rovinando irrimediabilmente l’effetto evocativo di questo rimando tematico – nella psiche sconvolta di Lucia – all’unico suo momento di felicità vera, con gli scrosci dell’acqua), urla belluine (in Donizetti, in Lucia…non Fedora o Santuzza…) prima della cabaletta finale. L’immancabile bercio della maggior parte dei baritoni in circolazione, in corrispondenza delle frasi “e tu ripeti il giuro” (Simon Boccanegra) e “la pace dei sepolcri” (Don Carlos). La continuità della linea di canto orribilmente spezzata dall’artificioso rantolio della voce di Alvarez nell’affrontare “quando le sere al placido” nella Luisa Miller di Parma. I fiati inesistenti e i respiri presi a casaccio della Netrebko nella Traviata salisburghese (in cui lei, tra l’altro, è la migliore, perché su Rizzi e Villazon si dovrebbe infierire..), o la sua Elvira nei Puritani al Met. Per non parlare della Gheorgiu, la cui bellezza è inversamente proporzionale alla bravura, di cui ho ascoltato una Traviata e un Boccanegra che sembravano riscritti da Mascagni. E così via fino agli esiti grotteschi della Theodossiu nell’ultima Lucrezia Borgia bergamasca, dove nel finale si aggirava come una tarantolata per la scena sbattendo i pugni sulle porte e urlando come un’isterica (annovero quella esibizione nei primi posti della mia personalissima classifica degli orrori, appena dopo un “esultate” di Del Monaco eseguito senza mai prendere fiato, senza pause, tutto fffffff…davvero “impressionante”). Ed è solo per restare ai divi dell’odierno star system operistico. Tutto questo, eppure – che a raccontarlo svela toni sapidi e grotteschi – è costantemente giustificato dal feticcio dell’interpretazione. A qualche (rarissima) critica sottovoce, in merito a certi squilibri vocali, si risponde che le carenze vengono “riscattate dalla splendida/sofferta/intensa/magistrale/sentita interpretazione”. E chi critica un pò di più e con maggiore cognizione di causa viene zittito, come un facinoroso o un attaccabrighe. Lo si accusa di essere un vuoto formalista che si attacca alle “notine” (vera ossessione dei “declamatofili” odierni), alle forcelle, al trillo, alla terzina, e ignora “il personaggio”. Con la differenza che le note, i trilli e le forcelle, sono scritti e andrebbero eseguiti, poichè proprio nei segni d’espressione l’autore ha voluto indicare la vera linea interpretativa, senza bisogno di esteriorizzare sentimenti e sensazioni già contenuti nella scrittura (ma ovviamente tradotti in note). E non è un formalismo stolido ricercare tali segni in ogni esecuzione, ma piuttosto è l’unica strada per rendere la precisa dimensione voluta dall’autore. La correttezza tecnica è presupposto essenziale ad una qualsiasi esecuzione, non è un capriccio nostalgico, perché solo se l’interprete rispetta i segni (da cui non è pensabile prescindere) può comunicare quella che nel belcanto è la “poetica della meraviglia” (ma il discorso non vale solo per il belcanto propriamente detto, è estendibile ad ogni genere poiché identico ne è il presupposto: la traduzione – e la razionalizzazione – in chiave musicale di un’idea, non la verosimiglianza). Certo che è difficile, certo che è più comoda la via di fuga del bercio o della sceneggiata strappa applausi. Certo che l’acuto stentoreo e fragoroso può impressionare certuni. Certo che l’approccio attoriale può conquistare qualche sprovveduto digiuno di conoscenze musicali. Certo. Ma non si dimentichi che l’opera è prima di tutto musica e canto e vocalità. La resa drammatica del testo è conseguenza dei presupposti musicali, cioè, attraverso il gusto e lo stile (e seguendo le importantissime indicazioni espressive dell’autore, che non sono – come ironizza taluno – fissazioni pedanti di nostalgici) l’interprete esprime il mondo di idee e di affetti che il compositore ha voluto rappresentare, senza bisogno di mutuare da altri linguaggi elementi e formule espressive. E che si tratti dell’opera barocca, della tragédie lyrique, dell’opera neoclassica, del romanticismo, del verismo, dell’espressionismo etc… non viene mai meno – non può mai venir meno – il carattere antirealistico della stessa e la conseguente necessità di circoscriverla entro i confini che le sono proprio, ossia la musica, le sue costruzioni formali (per quanto rigide o libere esse siano), la correttezza espressiva e l’adeguatezza tecnica.
In chiusura, due interpretazioni di diverso “peso” della stessa scena:
G. Donizetti – Lucia di Lammermoor – Beverly Sills (via beverlysills1)
G. Donizetti – Lucia di Lammermoor – Natalie Dessay (via DessayBestSinger)
Ho molto apprezzato il suo dottisimo articolo.
Senza dubbio una tecnica agguerrita ed il rispetto integrale dei segni di espressione dello spartito sono fondamentali perché un cantante sia un bravo cantante.
Ricordo di aver sentito Alfredo Kraus ,in una conferenza ascoltata molti anni fa ,affermare che la tecnica gli permetteva di illuminare “facilmente” un personaggio nelle più minute sfumature.
Il fatto è che se “muggiti” , note oscillanti , acuti da impiccati,e, parimenti, gratuite cadute nel parlato sono dprecabili, la tecnica, anche la più raffinata ,da sola non basta :necessita di una spiccata personalità interpretativa.
Altrimenti avremo una esecuzione impeccabile, ma incapace di infondere emozioni nell’ascoltatore.
Penso, ad es., alla romanza “Je veux vivre” di Juliette di Massenet, che sentii eseguire tanti anni fa con tecnica raffinatissima dalla Mirella Devia.Esecuzione perfetta,ma…
nulla c’era della psicologia , del particolare stato d’animo vissuto dall’adolescente. Solo gelida eleganza.
Quanto alla Dessay, sono d’accordo!basta con il battage della grandissima cantante! Anche ai suoi bei dì, la voce era , a mio modesto avviso, tesa allo spasimo al limite delle sue possibilità.E questo spiega le varie operazioni subite.
Questa Lucia poi, oltre a evidenti difficoltà vocali , licenze personali,siglate dall’urlaccio finale, è solo molto volgare : troppo sangue,Luciaalla Dario Argento-,troppi contorcimenti nevrotici,cadute e balzi per tutta la scena ,ormai ridotti a cliché usurato,e ,soprattutto, di che sa l’esibizione di quel seno miserello che ci sta a fare? Meglio stenderci sopra “un pietoso vel”…
Il confronto con Bverly Sills è schiacciante : un altro pianeta.
Condivido anche le critiche a Florez: ottimo cantante,agilità sgranate con grande abilità, ma l’ultimo CD, reclamizzatissimo, è un chiaro prodotto gonfiato a mongolfiera dai media.
Florez dovrebbe prendersi un certo periodo di riposo,riposare la voce, studiarne i limiti e pensare al repertorio più adatto per gli anni futuri: dal vivo le prime crepe si sentono.
E, mi dispiace , mi scusi,non mi convince neppure l’ultimo Cd della Bartoli: voce fonogenica, furbizia astrale nella scelta del repertorio , ma quel “Casta diva” mezzo sussurrato e miagolato non mi convince.E anche lei ha grossi problemi , ad es.nelle agilità farfugliate.
Con i miei più cari saluti
Damabea
Certamente la tecnica “fine a sè stessa” non può bastare (anche se è condizione necessaria), ma è solo attraverso di essa che si riesce ad interpretare senza forzature il testo musicale. Non si può prescindere dalla correttezza tecnica e neppure si può sostituire ad essa la mera personalità interpretativa (la quale non può vivere mai da sola). Le parole di Kraus sono sacrosante. Su Bartoli, Dessay, Florez etc.. nutro le stesse perplessità..