Questa sera va in scena alla Scala Wozzeck di Alban Berg.
Stamane il massimo quotidiano milanese, tradizionalmente vicino al Teatro, plaudiva per il ritorno, dopo una immotivata assenza di dieci anni, del capolavoro.
L’estensore dell’articolo un po’ più oculatamente avrebbe dovuto consultare, prima di dar la stura ai propri entusiasmi, le cronologie del teatro e riflettere.
Riflettere su assenze, ingiustificate, che superano il mezzo secolo per capolavori del teatro italiani quali Iris ed Isabeau di Mascagni per tacere di Francesca da Rimini. E che sono immotivate non solo per la indiscussa qualità dei lavori, ma per l’obbligo che un teatro italiano, a maggior ragione se ritenuto “il” teatro italiano per eccellenza, ha di offrire una completa panoramica della produzione da Monteverdi a Dallapiccola o Malipiero.
Riflettere poi sul fatto che nel proporre le composizioni operistiche degli ultimi cento anni il teatro milanese non brilli per fantasia ed originalità. tante sono le riproposizioni in questi ultimi anni di Adriana e Fedora a scapito di tutti indistinto gli altri titoli e come, per contro il cartellone milanese abbondi di titoli pucciniani.
Riflettere che la limitata fantasia non riguarda solo il post Verdi, ma in generale tutto il melodramma italiano. L’assenza di un titolo assoluto quanto a valori storici ed estetici come Semiramide è un peccato mortale che le dirigenze artistiche scaligere con eguale stolidità si tramandano da ben 45 anni. E anche Norma ormai fa compagnia al capolavoro rossiniano.
Riflettere che l’attuale, assai più delle passate, dirigenza artistica non ripropoponga da anni un melodramma inedito. E il melodramma va, tanto per rinfrescare la memoria a chi deputato e pagato per averla aggiornata e fresca da Monteverdi a Dalla Piccola, come detto sopra. Se il titolo è “inedito” possiamo star certi che lo è solo per il teatro milanese, perché in altri vuoi italiani vuoi stranieri ha già avuto copiose ed interessanti riproposte. Non mi si venga a parlare di Stuarda o Borgia, che sono, ormai, opere consuete, se non proprio di repertorio.
La lista degli assenti è lunghissima, penso ad un lavoro pre handeliano che non sia la scontata trilogia di Monteverdi (in arrivo, infatti nella sala del Piermarini) ad un grand-operà, ad un melodramma francese, che non sia la più scontata ovvietà fatta di Manon, Werther, Faust, Carmen e Sansone.
Riflettere che anche fuori del repertorio italiano fantasia e cultura latitano. Esemplare il fatto che Richard Strauss, quantitativamente ben presente nelle ultime stagioni, sia qualitativamente limitato a Salome, Elektra, Ariadne e Rosenkavalier. Scusate, ma una Arabella, una Dafne o una donna silenziosa? E le conclusioni non mutano se si considera anche l’inflazionatissimo Mozart, ancor di più inflazionato per la costante proposizione della cosiddetta trilogia di Da Ponte. I nostri organizzatori hanno meno fantasia di quelli che operano in un qualsiasi teatro tedesco dedito istituzionalmente alla routine.
Riflettere che varietà e fantasia postulano, presuppongono e richiedono cultura, gusto e sensibilità per la ricerca autonoma di titoli inediti, che escludono acquistare idee e produzioni da teatri sempre stranieri, sposare idee e pensieri altrui, che possono anche essere ottimi, ma che per solo fatto di essere altrui mancano della freschezze, dell’inventività e dell’originalità di chi scopre e riscopre.
Per tornare al Wozzeck, ormai in scena freschezza, originalità e cultura erano sovrabbondanti quando nel lontano 1943 al Reale dell’Opera di Roma Tullio Serafin propose la prima italiana di Wozzeck, erano ancora ben presenti quando nel 1952 l’opera di Berg approdò alla Scala e il grande Mitropoulos faticò non poco a portarla a termine. Oggi mi spiace non le vedo proprio.
Le vedrei se mi venissero riproposti Iris o gli Orazi e Curiazi di Cimarosa.
Riflettere che per gestire un teatro tante, molte doti ci vogliono, ma prima di tutto fantasia e cultura. Oggi rarissime.
In omaggio a quelle uno stralcio del Wozzeck diretto da Böhm con la fantasiosa Eleanor Steber.
Stamane il massimo quotidiano milanese, tradizionalmente vicino al Teatro, plaudiva per il ritorno, dopo una immotivata assenza di dieci anni, del capolavoro.
L’estensore dell’articolo un po’ più oculatamente avrebbe dovuto consultare, prima di dar la stura ai propri entusiasmi, le cronologie del teatro e riflettere.
Riflettere su assenze, ingiustificate, che superano il mezzo secolo per capolavori del teatro italiani quali Iris ed Isabeau di Mascagni per tacere di Francesca da Rimini. E che sono immotivate non solo per la indiscussa qualità dei lavori, ma per l’obbligo che un teatro italiano, a maggior ragione se ritenuto “il” teatro italiano per eccellenza, ha di offrire una completa panoramica della produzione da Monteverdi a Dallapiccola o Malipiero.
Riflettere poi sul fatto che nel proporre le composizioni operistiche degli ultimi cento anni il teatro milanese non brilli per fantasia ed originalità. tante sono le riproposizioni in questi ultimi anni di Adriana e Fedora a scapito di tutti indistinto gli altri titoli e come, per contro il cartellone milanese abbondi di titoli pucciniani.
Riflettere che la limitata fantasia non riguarda solo il post Verdi, ma in generale tutto il melodramma italiano. L’assenza di un titolo assoluto quanto a valori storici ed estetici come Semiramide è un peccato mortale che le dirigenze artistiche scaligere con eguale stolidità si tramandano da ben 45 anni. E anche Norma ormai fa compagnia al capolavoro rossiniano.
Riflettere che l’attuale, assai più delle passate, dirigenza artistica non ripropoponga da anni un melodramma inedito. E il melodramma va, tanto per rinfrescare la memoria a chi deputato e pagato per averla aggiornata e fresca da Monteverdi a Dalla Piccola, come detto sopra. Se il titolo è “inedito” possiamo star certi che lo è solo per il teatro milanese, perché in altri vuoi italiani vuoi stranieri ha già avuto copiose ed interessanti riproposte. Non mi si venga a parlare di Stuarda o Borgia, che sono, ormai, opere consuete, se non proprio di repertorio.
La lista degli assenti è lunghissima, penso ad un lavoro pre handeliano che non sia la scontata trilogia di Monteverdi (in arrivo, infatti nella sala del Piermarini) ad un grand-operà, ad un melodramma francese, che non sia la più scontata ovvietà fatta di Manon, Werther, Faust, Carmen e Sansone.
Riflettere che anche fuori del repertorio italiano fantasia e cultura latitano. Esemplare il fatto che Richard Strauss, quantitativamente ben presente nelle ultime stagioni, sia qualitativamente limitato a Salome, Elektra, Ariadne e Rosenkavalier. Scusate, ma una Arabella, una Dafne o una donna silenziosa? E le conclusioni non mutano se si considera anche l’inflazionatissimo Mozart, ancor di più inflazionato per la costante proposizione della cosiddetta trilogia di Da Ponte. I nostri organizzatori hanno meno fantasia di quelli che operano in un qualsiasi teatro tedesco dedito istituzionalmente alla routine.
Riflettere che varietà e fantasia postulano, presuppongono e richiedono cultura, gusto e sensibilità per la ricerca autonoma di titoli inediti, che escludono acquistare idee e produzioni da teatri sempre stranieri, sposare idee e pensieri altrui, che possono anche essere ottimi, ma che per solo fatto di essere altrui mancano della freschezze, dell’inventività e dell’originalità di chi scopre e riscopre.
Per tornare al Wozzeck, ormai in scena freschezza, originalità e cultura erano sovrabbondanti quando nel lontano 1943 al Reale dell’Opera di Roma Tullio Serafin propose la prima italiana di Wozzeck, erano ancora ben presenti quando nel 1952 l’opera di Berg approdò alla Scala e il grande Mitropoulos faticò non poco a portarla a termine. Oggi mi spiace non le vedo proprio.
Le vedrei se mi venissero riproposti Iris o gli Orazi e Curiazi di Cimarosa.
Riflettere che per gestire un teatro tante, molte doti ci vogliono, ma prima di tutto fantasia e cultura. Oggi rarissime.
In omaggio a quelle uno stralcio del Wozzeck diretto da Böhm con la fantasiosa Eleanor Steber.
Alban Berg – Wozzeck: Wiegenlied – Eleanor Steber