Generico consenso come quello che gli venne tributato a Milano, in occasione proprio delle rappresentazioni dell’Otello, trionfatrice la Pasta. Duprez, infatti, allora ancora tenorino di grazia, per nulla bello d’aspetto ma assai elegante, pare avesse il solo merito di esibire piedi straordinariamente piccoli, che nobilmente sapevano calzare delle scarpette di seta bianche, capaci di attrarre l’attenzione delle signore. Sarebbe dunque andato avanti così, ad esibire una voce di timbro non certo particolare, a snocciolare buone agilità e ad esibire acuti emessi “di grazia”, ossia in falsettone, come era prassi sino al finire degli anni ’20.
Ma Duprez non pensava come i tenori di oggi e perciò passò alla storia, a dispetto della sua originaria….mediocrità. Non lo decise consciamente, per forza: finì per farlo, travolto dal turbine della competizione con l’indiscusso re del canto del suo tempo, sia di quello epico che di quello malinconico, re per timbro oltre che per ampiezza e capacità acrobatiche: Giovan Battista Rubini. Fare concorrenza a chi ha molti più numeri, si sa, può portare a percorrere strade difficili e talora anche pericolose: il prode francese dal piccolo corpo rachitico e dal timbro non bello, seguì la via dell’accento, del guizzo eroico, secondo un modo nuovo, personalissimo e, alla fine, rivoluzionario per la storia del canto. A furia di cercare proiezione e squillo, e in barba alle convenzioni stilistiche, approdò per primo all’emissione della gamma acuta a voce piena: dal 1831 nel Guglielmo Tell il tenore cominciò a cantare la sua parte integralmente di petto, do compresi. E soprattutto! Un nuovo slancio, una nuova forza di accento eroico e tragico entrarono da quel momento nella vocalità del tenore di grazia, conferendogli prerogative drammaturgiche diverse, in parte appannaggio del precedente tenore di forza. Tecnica e modi interpretativi che gli derivarono proprio da Domenico Donzelli. Le fonti dell’epoca, soprattutto Panofka, deplorarono l’invenzione di Duprez, di fronte alla quale Rossini avrebbe colpevolmente taciuto ( all’opposto del più tardo racconto di Monaldi, secondo cui Rossini gli avrebbe solo profetizzato una breve durata di carriera ), perché portatrice di nuovi equilibri sonori tra le voci, e tra le voci ed la buca ( al contrario di quanto oggi alcuni opportunisticamente affermano ). Non possiamo confondere la concezione dell’epoca con la nostra concezione della “forza”, che siamo ormai soliti scambiare per suoni spessi, sparati e mai portati, figli di prassi stilistiche successive. Era la forza della voce piena appunto, mai mista, ma comunque modulata e controllata, dove l’emissione pura superava ogni eventuale limite timbrico. Così doveva cantare il tenore di cui s’innamorò Donizetti, che per lui aveva già scritto, prima del mirabolante do di petto, la Parisina e la Rosmonda d’Inghilterra, mentre a Lucia seguirono Les Martyrs, La Favorite e Dom Sébastien. Duprez era celeberrimo, in Italia ed in Francia, espressione di una maniera diversa, nuova rispetto a Rubini, di cantare Juive e Les Huguenots.
Anche Duprez aveva cantato il Pirata, immediatamente prima del Tell, e con grande successo. Proprio le nenie composte da Bellini per Gualtiero divennero il modello indiscusso del lamento dell’eroe dolente e sconfitto interpretato dalle voci maschili, e non più femminili. Già con Gennaro di Borgia Donizetti aveva testato, su un personaggio più limitato dal punto di vista drammaturgico, il suo prototipo di scena di morte maschile. Con la Lucia obbligò l’eroe innamorato e perdente sia al canto dell’amoroso del I atto che alle scene eroiche del concertato e della cosiddetta “scena della torre”, che al lamento di morte. Ossia tutti i “topos” drammaturgici del tenore romantico.
La scena della morte di Edgardo, anche nelle sue testimonianze sonore, và inquadrata tenendo presente questi dati: la capacità del primo esecutore e di chi venne dopo di cantare sia “di forza” che “di grazia”. Nonostante innovazioni vocali del suo primo interprete, Edgardo fu appannaggio da subito sia di Rubini, che fu proprio il primo interprete della prima parigina della Luciè di Lammermoor, che di Donzelli. La scrittura di Edgardo, infatti, meno acuto di un Gualtiero, di un Elvino come dei contraltini rossiniani, risultava accessibile anche ai tenori “di forza”, attratti dal lato eroico del personaggio. La storia interpretativa di Edgardo, di fatto, annovera sino ai giorni nostri tenori prevalentemente contraltini ma pure tenori dotati di ampiezza vocale e/o di squillo, soliti anche al tardo Verdi: mentre i primi pativano il peso della scena della torre ( da cui la prassi del taglio, normalmente praticato anche nell’800 ) e della maledizione, i secondi potevano soffrire la scomoda tessitura del finale e, soprattutto, sul piano dello stile, oltre che dell’emissione. La morte di Edgardo, infatti, come già quella di Gennaro, è notoriamente ricca di ascendenze. Riecheggia ancora con evidenza quella di Romeo Montecchi, ad esempio: la giovanile ambiguità di uno degli ultimi en travestì postrossiniani, non ancora molto lontani nel tempo, traspare nel modo sconsolato, solitario, ma sempre astratto di concepire la morte; il lamento solitario, intimo e privo di eroismo come di qualunque cenno epico o guerriero, non può non ricordare quanto Rossini aveva voluto per Tancredi, che, una volta spogliato dai panni del guerriero e dell’amante, moriva con gli accenti del ragazzo. Per questo la morte di Edgardo, nonostante le prerogative arcinote del suo primo esecutore, appartiene al mondo del belcanto, quello astratto, dall’emissione pura, dalla dolce e progressiva salita verso l’acuto ( che non può essere ghermito, spinto o strozzato, e nemmeno “virilmente” emesso ), del timbro giovanile e fresco. Essa costituì, di fatto, un prototipo vero e proprio di scena di morte per l’opera italiana, tanto che Verdi, durante la stesura del Macbeth, scrisse a Varesi, primo interprete, sul modo in cui avrebbe voluto vedere morire il suo re usurpatore, un modo nuovo, diverso, che nulla avesse in comune proprio con la morte di Edgardo o Gennaro (…ma che tanto ricorda la scena di Assur in Semiramide…..). Sapevano morire bene i tenori della generazione successiva a Duprez, i cu repertori ancora si fondavano su Rossini, Donizetti, Bellini, Pacini: iol più celebre, Napoleone Moriani, il tenore della bella morte”. Quelli che praticarono Verdi, di lì a pochissimo, sapevano principalmente ben maledire, invece, come Fraschini o Tamberlick.
Alcuni brevi commenti agli ascolti.
Il vecchio Marconi, in un ascolto un po’ fortunoso, canta la scena finale a metà tra il tenore di forza e quello di grazia. Oscilla liberamente in un mix di accenti variegato, con una cadenza singolare, e per noi assai inusuale, in chiusa al “Fra poco a me”. Quanto al “Tu che a Dio”, la dinamica è anch’essa inusuale per noi, straordinariamente varia quanto antica per il nostro gusto.
Le scelte dinamiche di Bonci restano più simili alle nostre, elegantissima e sfumata la linea di canto; a metà strada Anselmi.
Purissimo il timbro di Mc Cormack: il suo Edgardo è astratto, ultraterreno quasi trasfigurato. Per sentire una simile qualità timbrica occorre scomodare Gigli.
Gigli sta con Schipa e Pertile: è la leggenda del canto del ‘900
A Gigli basterebbe già il timbro, naturalmente ambiguo, malinconico e purissimo. La sua bella morte è poi arricchita anche dal fraseggio: peccato non avergli fatto incidere anche la morte di Romeo Montecchi ….
Pertile è il solo tenore veramente di forza che non soffra per nulla sul piano dello stile nel Tu che a Dio. L’emissione è stupenda come il gioco dinamico dei rallentando , da quello su “ali”, quindi “teco ascenda”, “innamorata”.Come anche l’accentare sulla parola, con voce scura, “cruda guerra”, dolorosissima davvero. Ci si chiede se queste straordinarie intenzioni musicali fossero quelle di Toscanini, perché in questi nostri anni di toscaninismo deteriore……alcuni dovrebbero forse rimediare certe loro convinzioni direttoriali…..
Forse a Tucker manca la purezza del canto di Gigli e Pertile, ma resta facilissimo ed espressivo. Il canto è dolente , ma più di forza che di grazia.
Una parola speciale per Alain Vanzo. Voce più corposa e di maggiore qualità timbrica di Kraus, era il solo capace di esibire una perizia stilistica in grado di stargli a fianco. Il “Tu che a Dio” è cantato con grande intensità, così come più facile nell’accento è il recitativo “Tombe degli avi miei”
Della coppia dei grandi rossiniani, mentre Merritt delude soprattutto per problemi di intonazione, Blake stupisce e desta un certo rimpianto. Pur non avendo mai praticato il ruolo, canta l’aria benissimo: il prodigio del fiato gli consente di creare una grande linea di canto, con smorzature facilissime. Manca il timbro evidentemente, che forse lo penalizza nel “Tu che a Dio”, ma la facilità del canto e la ricerca di intenzioni espressive rendono valido il suo finale di Edgardo.
Shalva Mukeria è molto astratto, assai struggente. Il timbro è veramente giovanile, le salite verso l’alto sempre con voce avanti e timbrata. Tutta la scena è cantata in modo emozionante, il finale poi con vera disperazione, ma sempre in modo composto e bella emissione.
Non conosco un tenore di oggi che sappia cantare questa scena come lui. Il fatto che a questo tenore sia concesso soltanto un secondo cast nella periferica Jesi è la prova della sordità e dell’incompetenza della maggior parte dei direttori artistici italiani
Donizetti – Lucia di Lammermoor
– Tombe degli avi miei…Fra poco a me ricovero
1908 – Francesco Marconi
1910 – John McCormack
1913 – Giuseppe Anselmi
1913 – Alessandro Bonci
1916 – Giovanni Martinelli
1926 – Beniamino Gigli
1937 – Frederick Jagel
1949 – Ferruccio Tagliavini
1954 – Giuseppe Di Stefano
1961 – Richard Tucker
1964 – Alfredo Kraus
1965 – Jaime Aragall
1967 – Luciano Pavarotti
1967 – Gianni Raimondi
1970 – Alain Vanzo
1975 – Carlo Bergonzi
1982 – Rockwell Blake
1992 – Chris Merritt
2007 – Shalva Mukeria
– Tu che a Dio spiegasti l’ali
1908 – Francesco Marconi
1910 – John McCormack
1913 – Giuseppe Anselmi
1913 – Alessandro Bonci
1913 – Tito Schipa
1917 – Giovanni Martinelli
1923 – Aureliano Pertile
1926 – Beniamino Gigli
1931 – Hipolito Lazaro
1937 – Frederick Jagel
1942 – Jan Peerce
1949 – Ferruccio Tagliavini
1954 – Giuseppe Di Stefano
1961 – Richard Tucker
1964 – Alfredo Kraus
1965 – Jaime Aragall
1967 – Luciano Pavarotti
1967 – Gianni Raimondi
1970 – Alain Vanzo
1975 – Carlo Bergonzi
1982 – Rockwell Blake
1992 – Chris Merritt
2007 – Shalva Mukeria
Complimenti per la bellissima analisi, ma a parte una certa sottovalutazione di Kraus potevate ricordare ed inserire anche Giuseppe Morino nella per altri versi folle Lucia napoletana!
Ciao!
No, non ho sottovalutato Kraus, anzi. Lo era Vanzo, quello si!
Mi sembrava di ripetermi a riparlarne…del resto non ho commentato tutti…
Morino: hai ragione. Anche perchè forse, se la memoria non mi tradisce, faceva quella puntatura al mi bem al duetto con Lucia…
Se lo ritrovo, lo aggiungo.
Ricordi benissimo! Fa la puntatura al mi bemolle in teatro, sia pure contronato da un cast da Carro di Tespi. Ho avuto anche l’onore di sentirlo studiare il duetto con Kettelson in una sala prove alla Scala, con puntatura di facilità sconcertante…credo sia un cantante da riproporre e da ricordare, coerente con lo spirito del Corriere della Grisi!
También la incompetencia de los directores artísticos españoles…
El público se está malformando con cantantes como los contratados por los teatros.
Gracias por compartir el buen cantar de Shalva Mukeria.
Ramón Criado Mateos
Toc! Toc! Scusate… Qualcuno può aiutarmi a trovare ONLINE notizie su Matilde Juva Branca, "deliziosa dilettante" lodata da Rossini e Mercadante" e ritratta da Hayez?
Grazie di cuor.
Vittorio
PS Mi servono soprattutto i dati anagrafici e tutto ciò che sia possibile.