“Cenerentola vien qua/Cenerentola va là/Cenerentola va su/Cenerentola vien giù..” E proprio un “su e giù” può definirsi l’andatura delle non poche incisioni di questo capolavoro rossiniano. Per onestà occorre però precisare che, purtroppo, nella sua storia discografica, si trovano molte più Cenerentole attestate su livelli bassi (e talvolta bassissimi) che esempi non dico ottimi, ma almeno buoni. Infatti la maggior parte delle incisioni “ufficiali” oggi disponibili sul mercato, occupa (soprattutto per ciò che riguarda la protagonista) tutti gli spazi disponibili che, in un’ipotetica scala di classificazione qualitativa, vanno dal mediocre al pessimo. Questo, dicevo, per i “meriti” delle interpreti principali, chiamate via via, a risolvere i difficili problemi legati al ruolo del titolo.
Ovviamente la resa della protagonista non può che influenzare e determinare il risultato finale di ogni incisione/spettacolo, poiché non è per nulla concepibile una Cenerentola senza Cenerentola, e laddove vi siano pure degli eccellenti e nobili Alidoro, o degli spregiudicati e pirotecnici Don Ramiro, o dei Don Magnifico finalmente non bercianti e non parlanti, o persino dei Dandini che non si limitino a fare la macchietta da avanspettacolo, mancando di una vera protagonista, il risultato non potrà che deludere.
Ma perché, dunque, questo sfacelo? Quali sono queste grandi difficoltà? Beh, innanzitutto sono le stesse di ogni ruolo rossiniano: agilità e coloratura, emissione corretta, buon gusto (soprattutto nelle variazioni, che – giova ricordare – devono sì mostrare ed esaltare la bravura dell’interprete vocale, ma non dovrebbero mai soverchiare la linea di canto ed annegarla in continui e schizofrenici saltelli su e giù per il rigo tali da rendere irriconoscibile la musica scritta – e magari senza l’adeguato bagaglio tecnico per risultare quantomeno ascoltabili) e naturalmente raffinatezza. Ad esse, che sono le solite difficoltà che ogni interprete incontra nell’affrontare Rossini (sia esso soprano, contralto, tenore o basso), se ne aggiungono, nel caso di Cenerentola, altre, diverse e particolari, a rendere più complessa la già complessa scrittura vocale del pesarese. Cenerentola è, infatti, opera singolare: non è più una semplice opera buffa, come Il Barbiere di Siviglia o L’Italiana in Algeri, ma (e questo lo si può notare fin nell’esplicita definizione sul frontespizio della partitura, che recita melodramma giocoso, il che non può che riportare alla mente la simile definizione che si incontra sul Don Giovanni mozartiano) richiama quel genere teatrale, andato sempre più in disuso e travolto dalle temperie drammatiche dell’incipiente romanticismo, che si definiva comédie larmoyante (del quale vi sono numerosi e gloriosi esempi nella appena precedente tradizione operistica italiana: si pensi alla Nina, pazza per amore di Paisiello, o al Matrimonio segreto di Cimarosa; e che verrà poi recuperato, in pochi ed ultimi sporadici tentativi di ridonargli linfa vitale, dal Bellini della Sonnambula e, soprattutto dal Donizetti di quel capolavoro, ancora oggi misconosciuto, che è la Linda di Chamounix). Suddetto genere prevede, accanto a personaggi marcatamente buffi e caricaturali, personaggi di livello quasi drammatico, caratterizzati da un accento già tragico che deve riflettersi sia nella resa vocale della scrittura, sia nella caratterizzazione del ruolo. E questo per differenziare musicalmente (solo musicalmente, senza ricorrere a caccole e altri beceri stratagemmi interpretativi che oggi, purtroppo, stanno incredibilmente tornando di moda) la commedia dal dramma, sino al lieto fine che ricomponendo i conflitti tra le parti, ricompone gli stili contrapposti. Il personaggio di Cenerentola/Angiolina è dunque chiamato a dare corpo e soprattutto voce a questa ambiguità fondamentale: da una parte il virtuosismo necessario e imprescindibile, dall’altra l’accento malinconico e tormentato (ma senza cercare il dramma a tutti i costi, estraneo all’estetica rossiniana). Il tutto viene quindi sublimato nel rondò finale, luogo dove la vicenda termina, dove l’ambiguità finisce, dove i conflitti cessano, riunificati dall’esplosione belcantista mai fine a sé stessa, ma espressiva ed evocativa al tempo stesso. Compito difficile dunque e motivo principale del fallimento di numerose incisioni dell’opera, segno questo che solo una vera primadonna dovrebbe avvicinarsi ad essa (come lo furono le prime interpreti, la Righetti Giorgi o la Malibran) e segno, anche, dell’imbarbarimento dei tempi, vista l’assegnazione del ruolo a cantanti che avrebbero potuto tutt’al più aspirare ad un’onesta carriera di comprimariato e che, invece, complici agenzie senza scrupolo, sovrintendenti impreparati, ottimi uffici marketing e campagne pubblicitarie, sono le nuove “dive” dei nuovi pubblici di bocca assai buona e di orecchio assai scarso. E allora guardiamoci un pò attorno e vediamo cosa ci propone il mercato, almeno quello più recente.
E’ doverosa, innanzitutto, una premessa in ordine all’assurdità e alla schizofrenia delle politiche commerciali delle case discografiche. Passi infatti, il brutto spettacolo, la produzione infelice, l’esecuzione dilettantesca, che dura lo spazio di qualche sera o di una stagione, ma che poi, calato il sipario, si cerca di dimenticare nel più breve tempo possibile così ad evitare danni permanenti (per l’ascoltatore e per l’interprete), ma perché mai si dovrebbe, invece, fissare su disco e tramandare ai posteri l’imbarazzante Cenerentola di una Kasarova ormai in grave crisi, con acuti stirati e bassi gutturali e dalla coloratura pasticciata e affannata, per tacere di un’emissione a intermittenza (ora di gola, ora di stomaco, ora ancora più indietro..)! Oppure quella della Larmore (che con questo segna davvero il suo peggiore Rossini), grigia e statica, in costante ricerca di imitare l’inarrivabile (soprattutto per lei) Horne, non possedendone affatto sia il bagaglio tecnico che il controllo di accento e fiati. Davvero inascoltabili poi, quelle agilità che dire approssimative è eufemistico, saltellanti tra lo strillo e il brontolio di stomaco. Per tacere dell’assoluta mancanza di legato e della pronuncia fantasiosa – e siamo in studio di registrazione, con tutte le comodità e i ritocchi del caso (comodità ampiamente sfruttata in altre sue incisioni che, seppur poco genuine, almeno hanno permesso di confezionare prodotti più che discreti). Perché consegnare al disco la lettura di Carlo Rizzi (la cui carriera discografica e teatrale è per me un autentico mistero), e per ben tre volte poi: una peggiore dell’altra! In una personalissima gara a risultare di volta in volta più greve e più superficiale, più grigio e più monotono, più chiassoso e più pesante. E pensare che ad Abbado (Claudio, naturalmente) ne fu concessa una sola!!!
Sempre dando una rapida scorsa alla discografia ufficiale c’è da chiedersi poi, i motivi per due edizioni che pur non essendo dei disastri (anzi, per certi versi sono pure interessanti), non presentano tuttavia, alcun elemento di eccezionalità tale da giustificare una pubblicazione con i crismi dell’ufficialità (e se poi si pensa che l’industria discografica non ha mai considerato l’Angiolina della Dupuy e della Horne – per nostra fortuna testimoniate da alcuni live amatoriali o quasi – i motivi di tali uscite risultano ancor più incomprensibili). Mi riferisco alla Cenerentola della Ganassi e a quella della Di Donato. La prima riproduce uno spettacolo del 2000 del ROF (con una qualità audio appena più decente di un prodotto amatoriale – con rumori di scena e chiacchiericcio di ogni sorta – ma proposto a prezzo pienissimo: più costoso dei costosi cofanetti Opera Rara), alla direzione c’è il solito Rizzi (che fa come al solito, cioè male): la Ganassi è brava, anche se gli acuti non sono sempre svettanti e la coloratura non è certo impeccabile. La seconda, che risale al 2004, si riferisce invece, ad una produzione del Festival di Wildbad. Dirige l’esperto Zedda che non sarà Karajan, ma che sa rendere al meglio la partitura. Protagonista Joyce Di Donato (cantante oggi molto “di moda”, soprattutto nel barocco, e che con Rossini non trovo molto a proprio agio – come per la verità non la trovo a proprio agio neppure nel citato barocco, ma è un’altra storia..), voce abbastanza corretta, ma assai piccina, buona coloratura, ma priva del vero atteggiamento da “prima donna”, assolutamente necessario in quest’opera: Angiolina non è una modesta servetta a cui capita la botta di fortuna di far invaghire di sé il ricco “principe azzurro” di turno, ma è e resta nobile anche “tra la cenere”. Alla Di Donato manca la necessaria “opulenza” e consapevolezza per esaltare la statura e la dimensione di Cenerentola. Due edizioni oneste, quindi, abbastanza piacevoli (non sempre: in entrambe infatti, Praticò fa autentici disastri), ma assolutamente inutili. Tengo per ultima (prima di concentrarmi su alcuni esempi particolari di come non si deve cantare il rondò finale) la Bartoli. Innanzitutto bisogna distinguere la Bartoli che incide in studio e quella che si esibisce a teatro. Due cantanti diverse: la prima, col microfono a 30 cm dalla bocca, sembra capace di ogni acrobazia e finezza (quando non si lascia andare a certi eccessi di languori e sospiri, alla lunga stucchevoli e spessissimo di cattivo gusto), di smorzature e mezze voci; la seconda, alle prese con un teatro ed un’orchestra vera, fatica ad udirsi oltre il proscenio. E come se non bastasse emergono gravi difficoltà nelle agilità che sono veri e propri colpi di gola, un gorgoglio indistinto che richiama alla mente il gargarismo più che la coloratura. Si prenda il celebre rondò: fin dall’inizio la voce è vibrantissima e i primi trilli sono ingolati e schiacciati (medesimo effetto si ha ogni volta che la linea scende verso il basso), la voce spesso poi sparisce, diviene inubibile, per poi ricomparire in uno strillo schizofrenico (così credo intenda la Bartoli la povera Angiolina, una schizofrenica con manie ossessive-compulsive). Le cadenze interpolate (si senta quella dopo il primo “la sorte mia cangiò”) e le variazioni, sono di ineguagliata bruttezza, soprattutto per il gusto. Il pezzo viene poi infarcito di insopportabili rallentando, mai scritti e mai pensati (e mai concepiti in nessun’altra incisione/esecuzione). Infine la scrittura è spesso semplificata (vengono eliminati dei difficili salti di settima ad esempio). Il confronto con la Horne, sia per gusto che per tecnica, è impietoso. Alla lettura “affannata” della Bartoli, fa da contraltare quella fortemente drammatica (e del tutto fuori luogo) della Barcellona, che affronta Angiolina col piglio di un mal compreso Tancredi. La resa è quella che è: voce bellissima quella della Barcellona, ma assolutamente sprecata (tecnica tralasciata, bassi pieni d’aria, timbro artificiosamente gonfiato e brunito, canto di gola, mentre gli acuti sono al solito sforzatissimi). Davvero un peccato. Veramente pessimo, poi, il rondò della Larmore (della cui prestazione già ho accennato), forse uno dei più brutti mai incisi: così tutto ingolato. E qui torniamo alla domanda iniziale: perchè? E viene da sorridere rileggendo ciò che la stessa Righetti Giorgi (prima interprete dell’opera) scrisse: “Cenerentola non può essere cantata con pieno successo che da una persona che possieda un’estensione tutta uguale, agile e pieghevole di 18 corde. Chi non ebbe dalla natura questo dono non avvisi di cantare la parte di Cenerentola giusta la mente di Rossini”. Peccato che tale consiglio – proveniente da un passato disinteressato – sia stato solo raramente ascoltato e seguito. Alla fine, dunque, cosa resta? Restano le grandi Cenerentole del passato, dove tecnica e gusto e raffinatezza avevano un senso, quando Angelina era la Horne, o la Dupuy, o la Berganza, o la Valentini Terrani. Quando cioè, la “bontà in trionfo” era solo il sottotitolo dell’opera e non anche l’atteggiamento assai indulgente del pubblico, disposto ora ad applaudire qualsiasi cosa! Ascoltiamo quindi le grandi prime donne, confrontiamole con le moderne e assai discutibili stars e confidiamo in tempi più civili…
Ovviamente la resa della protagonista non può che influenzare e determinare il risultato finale di ogni incisione/spettacolo, poiché non è per nulla concepibile una Cenerentola senza Cenerentola, e laddove vi siano pure degli eccellenti e nobili Alidoro, o degli spregiudicati e pirotecnici Don Ramiro, o dei Don Magnifico finalmente non bercianti e non parlanti, o persino dei Dandini che non si limitino a fare la macchietta da avanspettacolo, mancando di una vera protagonista, il risultato non potrà che deludere.
Ma perché, dunque, questo sfacelo? Quali sono queste grandi difficoltà? Beh, innanzitutto sono le stesse di ogni ruolo rossiniano: agilità e coloratura, emissione corretta, buon gusto (soprattutto nelle variazioni, che – giova ricordare – devono sì mostrare ed esaltare la bravura dell’interprete vocale, ma non dovrebbero mai soverchiare la linea di canto ed annegarla in continui e schizofrenici saltelli su e giù per il rigo tali da rendere irriconoscibile la musica scritta – e magari senza l’adeguato bagaglio tecnico per risultare quantomeno ascoltabili) e naturalmente raffinatezza. Ad esse, che sono le solite difficoltà che ogni interprete incontra nell’affrontare Rossini (sia esso soprano, contralto, tenore o basso), se ne aggiungono, nel caso di Cenerentola, altre, diverse e particolari, a rendere più complessa la già complessa scrittura vocale del pesarese. Cenerentola è, infatti, opera singolare: non è più una semplice opera buffa, come Il Barbiere di Siviglia o L’Italiana in Algeri, ma (e questo lo si può notare fin nell’esplicita definizione sul frontespizio della partitura, che recita melodramma giocoso, il che non può che riportare alla mente la simile definizione che si incontra sul Don Giovanni mozartiano) richiama quel genere teatrale, andato sempre più in disuso e travolto dalle temperie drammatiche dell’incipiente romanticismo, che si definiva comédie larmoyante (del quale vi sono numerosi e gloriosi esempi nella appena precedente tradizione operistica italiana: si pensi alla Nina, pazza per amore di Paisiello, o al Matrimonio segreto di Cimarosa; e che verrà poi recuperato, in pochi ed ultimi sporadici tentativi di ridonargli linfa vitale, dal Bellini della Sonnambula e, soprattutto dal Donizetti di quel capolavoro, ancora oggi misconosciuto, che è la Linda di Chamounix). Suddetto genere prevede, accanto a personaggi marcatamente buffi e caricaturali, personaggi di livello quasi drammatico, caratterizzati da un accento già tragico che deve riflettersi sia nella resa vocale della scrittura, sia nella caratterizzazione del ruolo. E questo per differenziare musicalmente (solo musicalmente, senza ricorrere a caccole e altri beceri stratagemmi interpretativi che oggi, purtroppo, stanno incredibilmente tornando di moda) la commedia dal dramma, sino al lieto fine che ricomponendo i conflitti tra le parti, ricompone gli stili contrapposti. Il personaggio di Cenerentola/Angiolina è dunque chiamato a dare corpo e soprattutto voce a questa ambiguità fondamentale: da una parte il virtuosismo necessario e imprescindibile, dall’altra l’accento malinconico e tormentato (ma senza cercare il dramma a tutti i costi, estraneo all’estetica rossiniana). Il tutto viene quindi sublimato nel rondò finale, luogo dove la vicenda termina, dove l’ambiguità finisce, dove i conflitti cessano, riunificati dall’esplosione belcantista mai fine a sé stessa, ma espressiva ed evocativa al tempo stesso. Compito difficile dunque e motivo principale del fallimento di numerose incisioni dell’opera, segno questo che solo una vera primadonna dovrebbe avvicinarsi ad essa (come lo furono le prime interpreti, la Righetti Giorgi o la Malibran) e segno, anche, dell’imbarbarimento dei tempi, vista l’assegnazione del ruolo a cantanti che avrebbero potuto tutt’al più aspirare ad un’onesta carriera di comprimariato e che, invece, complici agenzie senza scrupolo, sovrintendenti impreparati, ottimi uffici marketing e campagne pubblicitarie, sono le nuove “dive” dei nuovi pubblici di bocca assai buona e di orecchio assai scarso. E allora guardiamoci un pò attorno e vediamo cosa ci propone il mercato, almeno quello più recente.
E’ doverosa, innanzitutto, una premessa in ordine all’assurdità e alla schizofrenia delle politiche commerciali delle case discografiche. Passi infatti, il brutto spettacolo, la produzione infelice, l’esecuzione dilettantesca, che dura lo spazio di qualche sera o di una stagione, ma che poi, calato il sipario, si cerca di dimenticare nel più breve tempo possibile così ad evitare danni permanenti (per l’ascoltatore e per l’interprete), ma perché mai si dovrebbe, invece, fissare su disco e tramandare ai posteri l’imbarazzante Cenerentola di una Kasarova ormai in grave crisi, con acuti stirati e bassi gutturali e dalla coloratura pasticciata e affannata, per tacere di un’emissione a intermittenza (ora di gola, ora di stomaco, ora ancora più indietro..)! Oppure quella della Larmore (che con questo segna davvero il suo peggiore Rossini), grigia e statica, in costante ricerca di imitare l’inarrivabile (soprattutto per lei) Horne, non possedendone affatto sia il bagaglio tecnico che il controllo di accento e fiati. Davvero inascoltabili poi, quelle agilità che dire approssimative è eufemistico, saltellanti tra lo strillo e il brontolio di stomaco. Per tacere dell’assoluta mancanza di legato e della pronuncia fantasiosa – e siamo in studio di registrazione, con tutte le comodità e i ritocchi del caso (comodità ampiamente sfruttata in altre sue incisioni che, seppur poco genuine, almeno hanno permesso di confezionare prodotti più che discreti). Perché consegnare al disco la lettura di Carlo Rizzi (la cui carriera discografica e teatrale è per me un autentico mistero), e per ben tre volte poi: una peggiore dell’altra! In una personalissima gara a risultare di volta in volta più greve e più superficiale, più grigio e più monotono, più chiassoso e più pesante. E pensare che ad Abbado (Claudio, naturalmente) ne fu concessa una sola!!!
Sempre dando una rapida scorsa alla discografia ufficiale c’è da chiedersi poi, i motivi per due edizioni che pur non essendo dei disastri (anzi, per certi versi sono pure interessanti), non presentano tuttavia, alcun elemento di eccezionalità tale da giustificare una pubblicazione con i crismi dell’ufficialità (e se poi si pensa che l’industria discografica non ha mai considerato l’Angiolina della Dupuy e della Horne – per nostra fortuna testimoniate da alcuni live amatoriali o quasi – i motivi di tali uscite risultano ancor più incomprensibili). Mi riferisco alla Cenerentola della Ganassi e a quella della Di Donato. La prima riproduce uno spettacolo del 2000 del ROF (con una qualità audio appena più decente di un prodotto amatoriale – con rumori di scena e chiacchiericcio di ogni sorta – ma proposto a prezzo pienissimo: più costoso dei costosi cofanetti Opera Rara), alla direzione c’è il solito Rizzi (che fa come al solito, cioè male): la Ganassi è brava, anche se gli acuti non sono sempre svettanti e la coloratura non è certo impeccabile. La seconda, che risale al 2004, si riferisce invece, ad una produzione del Festival di Wildbad. Dirige l’esperto Zedda che non sarà Karajan, ma che sa rendere al meglio la partitura. Protagonista Joyce Di Donato (cantante oggi molto “di moda”, soprattutto nel barocco, e che con Rossini non trovo molto a proprio agio – come per la verità non la trovo a proprio agio neppure nel citato barocco, ma è un’altra storia..), voce abbastanza corretta, ma assai piccina, buona coloratura, ma priva del vero atteggiamento da “prima donna”, assolutamente necessario in quest’opera: Angiolina non è una modesta servetta a cui capita la botta di fortuna di far invaghire di sé il ricco “principe azzurro” di turno, ma è e resta nobile anche “tra la cenere”. Alla Di Donato manca la necessaria “opulenza” e consapevolezza per esaltare la statura e la dimensione di Cenerentola. Due edizioni oneste, quindi, abbastanza piacevoli (non sempre: in entrambe infatti, Praticò fa autentici disastri), ma assolutamente inutili. Tengo per ultima (prima di concentrarmi su alcuni esempi particolari di come non si deve cantare il rondò finale) la Bartoli. Innanzitutto bisogna distinguere la Bartoli che incide in studio e quella che si esibisce a teatro. Due cantanti diverse: la prima, col microfono a 30 cm dalla bocca, sembra capace di ogni acrobazia e finezza (quando non si lascia andare a certi eccessi di languori e sospiri, alla lunga stucchevoli e spessissimo di cattivo gusto), di smorzature e mezze voci; la seconda, alle prese con un teatro ed un’orchestra vera, fatica ad udirsi oltre il proscenio. E come se non bastasse emergono gravi difficoltà nelle agilità che sono veri e propri colpi di gola, un gorgoglio indistinto che richiama alla mente il gargarismo più che la coloratura. Si prenda il celebre rondò: fin dall’inizio la voce è vibrantissima e i primi trilli sono ingolati e schiacciati (medesimo effetto si ha ogni volta che la linea scende verso il basso), la voce spesso poi sparisce, diviene inubibile, per poi ricomparire in uno strillo schizofrenico (così credo intenda la Bartoli la povera Angiolina, una schizofrenica con manie ossessive-compulsive). Le cadenze interpolate (si senta quella dopo il primo “la sorte mia cangiò”) e le variazioni, sono di ineguagliata bruttezza, soprattutto per il gusto. Il pezzo viene poi infarcito di insopportabili rallentando, mai scritti e mai pensati (e mai concepiti in nessun’altra incisione/esecuzione). Infine la scrittura è spesso semplificata (vengono eliminati dei difficili salti di settima ad esempio). Il confronto con la Horne, sia per gusto che per tecnica, è impietoso. Alla lettura “affannata” della Bartoli, fa da contraltare quella fortemente drammatica (e del tutto fuori luogo) della Barcellona, che affronta Angiolina col piglio di un mal compreso Tancredi. La resa è quella che è: voce bellissima quella della Barcellona, ma assolutamente sprecata (tecnica tralasciata, bassi pieni d’aria, timbro artificiosamente gonfiato e brunito, canto di gola, mentre gli acuti sono al solito sforzatissimi). Davvero un peccato. Veramente pessimo, poi, il rondò della Larmore (della cui prestazione già ho accennato), forse uno dei più brutti mai incisi: così tutto ingolato. E qui torniamo alla domanda iniziale: perchè? E viene da sorridere rileggendo ciò che la stessa Righetti Giorgi (prima interprete dell’opera) scrisse: “Cenerentola non può essere cantata con pieno successo che da una persona che possieda un’estensione tutta uguale, agile e pieghevole di 18 corde. Chi non ebbe dalla natura questo dono non avvisi di cantare la parte di Cenerentola giusta la mente di Rossini”. Peccato che tale consiglio – proveniente da un passato disinteressato – sia stato solo raramente ascoltato e seguito. Alla fine, dunque, cosa resta? Restano le grandi Cenerentole del passato, dove tecnica e gusto e raffinatezza avevano un senso, quando Angelina era la Horne, o la Dupuy, o la Berganza, o la Valentini Terrani. Quando cioè, la “bontà in trionfo” era solo il sottotitolo dell’opera e non anche l’atteggiamento assai indulgente del pubblico, disposto ora ad applaudire qualsiasi cosa! Ascoltiamo quindi le grandi prime donne, confrontiamole con le moderne e assai discutibili stars e confidiamo in tempi più civili…