Ho portato il taccuino e la penna ieri sera, perché avrei voluto rendervi una recensione fedele e precisa, una buona chiosa passo passo alla serata: pensavo fosse doveroso, perché la Maria Stuarda, piaccia o meno rispetto agli altri titoli regali o ducali di Donizetti, resta una hit del belcanto, una di quelli che, a lato del moderato virtuosismo, impone alla Regina vittima ed agli due protagonisti, di cantare sulla parola, di fraseggiare ed inventare accenti, intenzioni….insomma….di non mollare mai un attimo. Ancora una volta, però, la cronaca della serata si riduce al racconto della prestazione solitaria della madrina del canto contemporaneo, Mariella Devia.
Il cimento vocale, che spesso in Stuarda è più mestiere che vera invenzione di genio, è arduo per tutti: il soprano sopporta il peso sfiancante di un’opera che per due terzi grava su di lei lungo una scrittura centrale, tutto sommato spianata, massacrante per chi non possegga una sonora prima ottava, un sicuro primo passaggio di registro ed un bel corpo di voce timbrata nella zona centrale; il mezzo soprano (mezzo solo per il libretto e per nulla nello spartito !! ) alle prese con una scrittura insidiosa, propensa a far strillare anche le fuoriclasse più estese in alto, ma personaggio vero, di regina arcigna, irata e gelosa; il tenore, dal carattere un po’ sbiadito, grosso modo romantico, ma costantemente obbligato al canto “di stile” sul passaggio superiore ( ed anche un po’ più su…), elegante e nobile, un vero amoroso con la mano sulla spada.
Tre cantanti veri, dunque, e, come sempre, una bacchetta da belcanto. A metter in scena titoli come questi, infatti, dove anche le più grandi artiste ( e vale per entrambe le regine ) sono state costrette a guerreggiare con lo spartito, dovrebbero essere chiamati dei concertatori sicuri, esperti nell’arte del raggiusto come delle scelte dinamiche, conoscitori veri dell’arte del canto. Alla base del belcanto stanno da sempre le scelte dei tempi, ( la moderna chimera! ), tutte quelle necessarie ed impercettibili ( per noi ) variazioni all’interno delle frasi, atte a sostenere il canto; quelle scelte sottili …appena appena un po’ più piano…… accelerando ma solo quel tanto che basta…..quel mondo di infinite sottigliezze che i mestieranti del podio operistico, da che mondo e mondo, hanno sempre messo al servizio dei cantanti, soprattutto dei grandi, affinchè potessero dispiegare dal palco tutta la loro arte. Quanto poi all’avere sensibilità verso un cantante mentre è in scena, ogni sera, attimo per attimo…non parliamone! Quel genere di direttore assicura la pronta risposta dell’orchestra, che deve assecondare l’artista e non spiazzarlo con gesti e tempi indecifrabili: è la ragion d’essere del direttore d’opera, dai Serafin ai Bonynge, passando attraverso i Panizza o i Santi. Ieri, durante una serata di poca arte, poco canto e tanta noia, dove la sola cosa veramente straordinaria è stata l’esibizione anatomica della tecnica vocale della Grande Signora del belcanto italiano, la prima cosa che è mancata allo spettacolo è stato, come al solito ormai, l’apporto demiurgico della bacchetta, al punto tale che ne ha fatto le spese anche a colei che proprio la bacchetta intendeva servire, ossia la Devia. La lentezza spaventosa di alcuni tempi, ed, ahimè, un’incredibile mancanza di vigore nell’accento ( alludo alle cabalette come al concertato primo ) hanno anestetizzato una serata caratterizzata da numerosi fuori tempo dei solisti come del coro, scollamenti e fuori tempo maldestri in cui persino la Devia è caduta, durante la stretta con Talbot che segue il Quando di luce rosea, causando pure, tra lo stupore generale, un acutino sgangherato inammissibile dalla Nostra. Insomma, anche quella del battisolfa è un’arte che ha la sua ragion d’essere profonda e dignitosa, ma và saputa praticare. Fogliani ha diretto male e del belcanto ha dato prova di aver capito poco poco, ossia che talvolta il testo dovrebbe essere aiutato anche praticando la forbice pietosa, come nell’orrenda ouverture cui nessuna fola filologica può donare dignità d’ascolto, o come in certe cori di passaggio, eseguiti a tempo di funerale. Ignora, il giovane, che le voci piccole appaiono ancora più piccole dentro i tempi letargici, a maggior ragione in un teatro grande come la Scala, e che il tempo letargico và comunque sostenuto; ignora che la mancanza di vigore di un cantante può essere emendata, almeno in parte, da un’orchestra vigorosa nell’accento e….da tempi un filo più stringati….ignora….ed è anche maldestro nel praticare la lentezza che serve alla Devia. Il pubblico ha duramente punito il giovane maestro che, forse, per ben servire la Grande Cantante o chi per essa in questo repertorio, dovrebbe rivedere i suoi modelli direttoriali, ripiegando sull’arte sapiente e sottile del giusto tempo ( ossia il migliore per chi canta ) di un Gavazzeni o di un maestro della vocalità come Bonynge. Con Fogliani è caduto, anche se in misura minore, l’espertissimo Pizzi, che del belcanto, invece, ha sempre capito tutto, a cominciare da ruolo del costume delle primedonne, bellissimi ieri sera, soprattutto quello di Elisabetta. L’eccesso di staticità, in un’opera fin troppo statica e con cantanti sempre in difficoltà vocale, ha impedito anche al pubblico più sprovveduto di risollevarsi dal torpore e di appagare almeno un pochino la vista.
Eccessivamente simmetrico nella scenografia, dalla struttura tubolare perimetrale alle passerelle, sino alla sequenza delle entrate-uscite dei personaggi, con il solito vai e vieni incentrato sulla scala centrale, perno dell’azione, l’allestimento è mancato incredibilmente in due cose, di cui una assai grave per un grande uomo di teatro come Pizzi, ossia la precoce sparizione della foresta ( bellissima ) e, con gran danno dei cantanti, l’eccessiva apertura delle scene, soprattutto al primo atto. Le voci, salvo quando si trovavano al proscenio, sono state letteralmente risucchiate via nella torre e disperse anche lateralmente, con evidente perdita di consistenza di volume. E di certo non ce n’era bisogno bisogno, soprattutto per le donne.
Quanto al canto…..c’è poco o nulla da dire.
La Devia è rientrata dopo mesi, mostrando una voce ridottissima, al lumicino, nuovo handicap aggiunto a quello di una voce per sua natura inadatta alla scrittura di Stuarda. E siccome le vere primedonne cercano la lotta contro grandi nemici in epiche battaglie, ieri sera la Devia ha avuto modo di mostrare di quali e quanti prodigi tecnici sia capace. Si, perché mai, nemmeno con la Horne alla fine della carriera, abbiamo avuto modo di assistere a tanta incredibile esibizione di tecnica vocale: nemmeno un suono naturale, niente più timbro, nessun volume, anche una certa insicurezza in alto laddove è sempre stata gelidamente fermissima ( delude i fans quando non tenta il sopracuto in chiusa al duetto col tenore…), e persino….qualche calo di intonazione ( penso alle prime due frasi di O nube che lieve, o alla stretta con Talbot ). Sinceramente non ho visto una Maria Stuarda né plausibile né convincente, se non a tratti, come nel bellissimo ed intenso Quando di luce rosea , che vale veramente la serata, o nel Da tutti abbandonata al primo atto. Piuttosto una mostruosa esibizione di tutti gli ingranaggi, di ogni meccanismo della sua tecnica vocale, un vero esprit du machinisme del canto: lo sportello che nascondeva le sapienti alchimie della voce è lì, del tutto aperto, e mostra, nella sua magia, i movimenti di ogni pezzo, dai prodigiosi fiati anche rubati ( cala all’inizio della cavatina e reagisce con un fiato rubato di lunghezza interminabile …..idem dicasi nel Quando di luce…), alle messe di voce. Persino il canto sulle singole note, dove mai un suono risulta “preso da sotto”, ma sempre diretto e centrato. Un mostro! Gestisce in questo modo uno spartito per lei smisurato e come San Giorgio, alla fine uccide il drago..nonostante la lotta abbia lasciato delle ferite sul vincitore.
Questo non è però arte del canto ( e nemmeno un buon esempio per chi verrà dopo ), perché non c’è la magia dell’illusione, del far credere e dell’emozionare. O meglio, non lo sarebbe mai stato se non fosse che i suoi compagni di avventura, possibili figli e nipoti della Diva, le stanno di fianco come estranei di altra professione, di altro mestiere. L’Antonacci grida e spinge con una voce piccola e vetrosa, corta e che non “gira” mai serenamente ( enorme il black out nella scena d’entrata !! ), bella a vedersi, ma impropria nell’emissione, negli acuti assenti, nelle notacce vuote di petto come nel canto che si fa addirittura parlato al duetto col tenore del II atto. Impossibili morbidezze ed abbandoni come un vero fraseggio incisivo per la terribile Elisabetta. Poca cosa, davvero. Quanto a Meli, che dire? Era la voce della sera, ma il canto resta quello di sempre, artificiosamente oscurato a simulare un immascheramento che non c’è, come non c’è il passaggio di registro verso l’alto. Canta, impiccandosi letteralmente, l’aria come i duetti, perennemente strozzato, e passando dal forte a squarciagola ai falsettini ( pochi, rispetto al solito ), con uno stile che nel canto lirico non ha spazio se non nel verismo. Si sperava che mutasse qualcosa ma……nulla.
Così alla fine Maria Stuarda, sessantenne di ferro, finisce per decapitare i suoi giovani colleghi, che restano lì incapaci di decifrare i segreti della sua lezione di anatomia vocale.
Il cimento vocale, che spesso in Stuarda è più mestiere che vera invenzione di genio, è arduo per tutti: il soprano sopporta il peso sfiancante di un’opera che per due terzi grava su di lei lungo una scrittura centrale, tutto sommato spianata, massacrante per chi non possegga una sonora prima ottava, un sicuro primo passaggio di registro ed un bel corpo di voce timbrata nella zona centrale; il mezzo soprano (mezzo solo per il libretto e per nulla nello spartito !! ) alle prese con una scrittura insidiosa, propensa a far strillare anche le fuoriclasse più estese in alto, ma personaggio vero, di regina arcigna, irata e gelosa; il tenore, dal carattere un po’ sbiadito, grosso modo romantico, ma costantemente obbligato al canto “di stile” sul passaggio superiore ( ed anche un po’ più su…), elegante e nobile, un vero amoroso con la mano sulla spada.
Tre cantanti veri, dunque, e, come sempre, una bacchetta da belcanto. A metter in scena titoli come questi, infatti, dove anche le più grandi artiste ( e vale per entrambe le regine ) sono state costrette a guerreggiare con lo spartito, dovrebbero essere chiamati dei concertatori sicuri, esperti nell’arte del raggiusto come delle scelte dinamiche, conoscitori veri dell’arte del canto. Alla base del belcanto stanno da sempre le scelte dei tempi, ( la moderna chimera! ), tutte quelle necessarie ed impercettibili ( per noi ) variazioni all’interno delle frasi, atte a sostenere il canto; quelle scelte sottili …appena appena un po’ più piano…… accelerando ma solo quel tanto che basta…..quel mondo di infinite sottigliezze che i mestieranti del podio operistico, da che mondo e mondo, hanno sempre messo al servizio dei cantanti, soprattutto dei grandi, affinchè potessero dispiegare dal palco tutta la loro arte. Quanto poi all’avere sensibilità verso un cantante mentre è in scena, ogni sera, attimo per attimo…non parliamone! Quel genere di direttore assicura la pronta risposta dell’orchestra, che deve assecondare l’artista e non spiazzarlo con gesti e tempi indecifrabili: è la ragion d’essere del direttore d’opera, dai Serafin ai Bonynge, passando attraverso i Panizza o i Santi. Ieri, durante una serata di poca arte, poco canto e tanta noia, dove la sola cosa veramente straordinaria è stata l’esibizione anatomica della tecnica vocale della Grande Signora del belcanto italiano, la prima cosa che è mancata allo spettacolo è stato, come al solito ormai, l’apporto demiurgico della bacchetta, al punto tale che ne ha fatto le spese anche a colei che proprio la bacchetta intendeva servire, ossia la Devia. La lentezza spaventosa di alcuni tempi, ed, ahimè, un’incredibile mancanza di vigore nell’accento ( alludo alle cabalette come al concertato primo ) hanno anestetizzato una serata caratterizzata da numerosi fuori tempo dei solisti come del coro, scollamenti e fuori tempo maldestri in cui persino la Devia è caduta, durante la stretta con Talbot che segue il Quando di luce rosea, causando pure, tra lo stupore generale, un acutino sgangherato inammissibile dalla Nostra. Insomma, anche quella del battisolfa è un’arte che ha la sua ragion d’essere profonda e dignitosa, ma và saputa praticare. Fogliani ha diretto male e del belcanto ha dato prova di aver capito poco poco, ossia che talvolta il testo dovrebbe essere aiutato anche praticando la forbice pietosa, come nell’orrenda ouverture cui nessuna fola filologica può donare dignità d’ascolto, o come in certe cori di passaggio, eseguiti a tempo di funerale. Ignora, il giovane, che le voci piccole appaiono ancora più piccole dentro i tempi letargici, a maggior ragione in un teatro grande come la Scala, e che il tempo letargico và comunque sostenuto; ignora che la mancanza di vigore di un cantante può essere emendata, almeno in parte, da un’orchestra vigorosa nell’accento e….da tempi un filo più stringati….ignora….ed è anche maldestro nel praticare la lentezza che serve alla Devia. Il pubblico ha duramente punito il giovane maestro che, forse, per ben servire la Grande Cantante o chi per essa in questo repertorio, dovrebbe rivedere i suoi modelli direttoriali, ripiegando sull’arte sapiente e sottile del giusto tempo ( ossia il migliore per chi canta ) di un Gavazzeni o di un maestro della vocalità come Bonynge. Con Fogliani è caduto, anche se in misura minore, l’espertissimo Pizzi, che del belcanto, invece, ha sempre capito tutto, a cominciare da ruolo del costume delle primedonne, bellissimi ieri sera, soprattutto quello di Elisabetta. L’eccesso di staticità, in un’opera fin troppo statica e con cantanti sempre in difficoltà vocale, ha impedito anche al pubblico più sprovveduto di risollevarsi dal torpore e di appagare almeno un pochino la vista.
Eccessivamente simmetrico nella scenografia, dalla struttura tubolare perimetrale alle passerelle, sino alla sequenza delle entrate-uscite dei personaggi, con il solito vai e vieni incentrato sulla scala centrale, perno dell’azione, l’allestimento è mancato incredibilmente in due cose, di cui una assai grave per un grande uomo di teatro come Pizzi, ossia la precoce sparizione della foresta ( bellissima ) e, con gran danno dei cantanti, l’eccessiva apertura delle scene, soprattutto al primo atto. Le voci, salvo quando si trovavano al proscenio, sono state letteralmente risucchiate via nella torre e disperse anche lateralmente, con evidente perdita di consistenza di volume. E di certo non ce n’era bisogno bisogno, soprattutto per le donne.
Quanto al canto…..c’è poco o nulla da dire.
La Devia è rientrata dopo mesi, mostrando una voce ridottissima, al lumicino, nuovo handicap aggiunto a quello di una voce per sua natura inadatta alla scrittura di Stuarda. E siccome le vere primedonne cercano la lotta contro grandi nemici in epiche battaglie, ieri sera la Devia ha avuto modo di mostrare di quali e quanti prodigi tecnici sia capace. Si, perché mai, nemmeno con la Horne alla fine della carriera, abbiamo avuto modo di assistere a tanta incredibile esibizione di tecnica vocale: nemmeno un suono naturale, niente più timbro, nessun volume, anche una certa insicurezza in alto laddove è sempre stata gelidamente fermissima ( delude i fans quando non tenta il sopracuto in chiusa al duetto col tenore…), e persino….qualche calo di intonazione ( penso alle prime due frasi di O nube che lieve, o alla stretta con Talbot ). Sinceramente non ho visto una Maria Stuarda né plausibile né convincente, se non a tratti, come nel bellissimo ed intenso Quando di luce rosea , che vale veramente la serata, o nel Da tutti abbandonata al primo atto. Piuttosto una mostruosa esibizione di tutti gli ingranaggi, di ogni meccanismo della sua tecnica vocale, un vero esprit du machinisme del canto: lo sportello che nascondeva le sapienti alchimie della voce è lì, del tutto aperto, e mostra, nella sua magia, i movimenti di ogni pezzo, dai prodigiosi fiati anche rubati ( cala all’inizio della cavatina e reagisce con un fiato rubato di lunghezza interminabile …..idem dicasi nel Quando di luce…), alle messe di voce. Persino il canto sulle singole note, dove mai un suono risulta “preso da sotto”, ma sempre diretto e centrato. Un mostro! Gestisce in questo modo uno spartito per lei smisurato e come San Giorgio, alla fine uccide il drago..nonostante la lotta abbia lasciato delle ferite sul vincitore.
Questo non è però arte del canto ( e nemmeno un buon esempio per chi verrà dopo ), perché non c’è la magia dell’illusione, del far credere e dell’emozionare. O meglio, non lo sarebbe mai stato se non fosse che i suoi compagni di avventura, possibili figli e nipoti della Diva, le stanno di fianco come estranei di altra professione, di altro mestiere. L’Antonacci grida e spinge con una voce piccola e vetrosa, corta e che non “gira” mai serenamente ( enorme il black out nella scena d’entrata !! ), bella a vedersi, ma impropria nell’emissione, negli acuti assenti, nelle notacce vuote di petto come nel canto che si fa addirittura parlato al duetto col tenore del II atto. Impossibili morbidezze ed abbandoni come un vero fraseggio incisivo per la terribile Elisabetta. Poca cosa, davvero. Quanto a Meli, che dire? Era la voce della sera, ma il canto resta quello di sempre, artificiosamente oscurato a simulare un immascheramento che non c’è, come non c’è il passaggio di registro verso l’alto. Canta, impiccandosi letteralmente, l’aria come i duetti, perennemente strozzato, e passando dal forte a squarciagola ai falsettini ( pochi, rispetto al solito ), con uno stile che nel canto lirico non ha spazio se non nel verismo. Si sperava che mutasse qualcosa ma……nulla.
Così alla fine Maria Stuarda, sessantenne di ferro, finisce per decapitare i suoi giovani colleghi, che restano lì incapaci di decifrare i segreti della sua lezione di anatomia vocale.
Quello che abbiamo sentito io e Lillian Nordica quassù corrisponde in parte a quello che avete sentito voi in teatro. Oltretutto sulla nuvola di sopra c’era la Patti con l’emicrania, quindi noi dovevamo tener basso il volume e lei non faceva altro che strillare.
Piccoli nei per Madame Devia, ma che classe a paragone di quella insipida Elisabetta: saporito brasato vicino a un pezzo di lesso. Ma ogni appetito mi è passato nel sentire le urla sgangherate di quel tenore da osteria. Ragazzi miei, lo so che laggiù non è più come quando cantavo io ma la soglia della decenza dovrebbe restare sempre e comunque un limite invalicabile!
M.me Devia, apres toi le déluge.
Caro Jean,
è vero,siamo alla fine, al diluvio finale. Ci ho pensato anche io l’altra sera: la vecchina è molto acciaccata e si sta spegnendo.
Mi fa arrabbiare però quando dichiara sui giornali: “non sarà come 37 anni fa perchè è mutato il gusto”.
No, mylady, diciamo il vero: “non sarà come 37 anni fa perchè io comunque la voce per Maria non la possedevo nemmeno quando ero strainforma….ed io e la Antonacci non siamo certo nè la Caballè nè la Verrett”.
Questo è stato il vero neo della nostra lady di ferro l’altra sera, più delle stonate, del sopracuto fischiato, della vocina….il neo è stato l’incredibile mancanza di obbiettività.
Madame Grisi,
mi consenta. Lei non è certo persona con poca esperienza di primadonnismo sulla groppa, sa come e meglio di me che il termine “obiettività” è stato espunto dal vocabolario dei cantanti d’opera ancora prima che Jacopo Peri venisse al mondo. Io, lei e quelli che come noi hanno abbandonato l’agone attivo ce la siamo magari anche recuperata l’obiettività, ma finchè calcano le scene non pretendiamo obiettività né da grandi soprani né da tenori più o meno stupidi.
Ma che è successo 37 anni fa?
Quanto al mutamento del gusto, beh, fosse per me tornerei a bomba a quello di 137 anni fa. La Maria Stuarda manco sapevamo più che era però il pubblico sapeva distinguere fra buon canto e cattivo canto e se noi volevamo andare avanti a far la spola fra Metropolitan e Covent Garden dovevamo provare in primo luogo di saper cantare, e bene.
Mi scusi lo sfogo, ho avuto un rigurgito di nostalgia. Adesso mi canto un po’ di Lohengrin e mi passa subito.
Caro De Reszke,
Lei mi punge sul vivo ricordandomi, senza dirlo, di quanto tirai la corda io a suo tempo, già avanti nell’età, tanto da finire sotto i fischi a Londra, sebbene fossi la Divina Grisi.
Ehm, la prego…non rammentiamo più il fatto. Talvolta noi grandi cantanti, constatando oggettivamente il deserto che ci circonda, non possiamo fare a meno di assumerci ogni onere, anche il più straordinario: lo facciamo più per amore dell’arte che per vanità o venalità, anche se il pubblico o la stampa talora non lo comprendono.
Però nemmeno io, che fui di certo la prima e la più grande a cantare anche quel che non era scritto per la mia voce ( perdoni la mia franchezza…!), la Maria Stuarda assolutamente non la volli fare. In realtà trovavo che l’opera non valesse tanto lo sforzo enorme che occorre per sostenerla.
Giunta a questo punto, per la signora la signora Devia, come ben ha mostrato la mia emula del secolo scorso, Joan Sutherland, una Regina di Navarra varrebbe davvero la serata….e lei, che di Ugonotti se ne intende assai, caro De Reszke, sa bene che è così.
A risentirla presto, caro Jean, a presto.