La nuova stagione della Scala è stata inaugurata questa sera con un Tristan und Isolde che ha saputo riscuotere un vero trionfo di pubblico e, pensiamo, anche di critica.
Direttore dell’ultima messa in scena scaligera era stato Carlos Kleiber, che, con l’edizione milanese, aveva aggiunto un ulteriore tocco di leggenda alla sua carriera: la prova fu tanto straordinaria da soddisfare la memoria dei milanesi per ben 29 anni, nonostante le mende vistose del cast vocale.
Lissner ha ritenuto che fosse ora di riprovarci, per la grandezza del titolo, da troppo tempo assente da Milano, e per le garanzie di riuscita che il trio Barenboim -Chéreau -Peduzzi potevano offrirgli sulla carta, dato che, come esperienza insegna, oggi in Wagner si può riscuotere grande successo anche senza i cantanti e questi sono artisti che sanno come si fa a far funzionare uno spettacolo.
Un grande direttore, espertissimo della partitura, abituato alle rituali celebrazioni del tempio di Bayreuth ed innamorato di Wagner al pari di Tristano con Isotta; un regista ed uno scenografo di riconoscibile personalità artistica, un tempo di avanguardia quando non scandalosi proprio nelle prove wagneriane, ma oggi semplicemente… collaudati: queste sembrano le riflessioni alla base delle scelte fatte per questa inaugurazione.
Barenboim ha diretto sicuro, nonostante i travagli sindacali che hanno accompagnato le prove, governando un’orchestra pulita, intensa, ricca di colori e di atmosfere, che ha spesso “cantato” più lei dei signori in palcoscenico, puntualmente coaodiuvati, sorretti ed aiutati dal deus ex machina della serata. E’ stato il signore incontrastato e l’artefice del trionfo di questa sera, trascinando con sè tutto e tutti, sorretto da un’orchestra, che, dopo tanto tempo, ci ha fatto sentire un suono finalmente adatto a Wagner. Ha diretto seduto, comodamente appoggiato al parapetto, con un grande fazzoletto per tergere il sudore ed una bottiglia d’acqua sul leggio al posto dello spartito: ha diretto tutto a memoria, senza nemmeno portare lo spartito in sala! Ogni tanto sembrava più godersi la musica che intento a dirigere, salvo poi risvegliarsi e con una gamba sù ed un giù dello sgabello dirigere robustamente, rivolgendosi ora agli orchestrali ora al palco. Che dire? c’era tutto, romanticismo, lirismo, epica, sogno, sofferenza, pathos, semplicemente tutto …con misura, intensità, varietà, tecnica. E l’orchestra ha suonato in modo fantastico.
Lo spettacolo è stato “alla maniera” del duo Chéreau – Peduzzi. Scene spoglie, un muro grigio quasi identico al Lucio Silla del 1983, costumi scuri, anodini, cappottoni, ma molta meno regia di quanto ci si potesse attendere.
In un’opera essenzialmente statica, il regista si è compiaciuto di un realismo talora eccessivo come nel finale primo, dove i due si sono avvinghiati a terra in un amplesso veramente volgare, o nel finale, con un’ Isotta dal volto orrendamente insanguinato, trovata assai poco consona alla trasfigurazione in morte della protagonista. Mentre il pubblico assiste come a un rito, il regista elimina completamente ogni suggestione di quella magia panica e panteista del duetto d’amore con una scenografia di muraglie, parallelepipedi incolori, scalette metalliche veramente troppo illuminati. E’ mancata la Notte, la magica Notte che avvolge l’amore dei due, nel mistero della natura circostante; l’opposto di quanto stava suonando e descrivendo Barenboim con la sua orchestra. Ridateci il giardino avvolto dalla notte magica, il grande mistero delle passioni travolgenti e della natura in cui gli amanti si fondono! In una parola, ridateci il mito! Che sia pure una sua trascrizione moderna e simbolica, ben venga, ma non le banalità di un’ “avanguardia” ormai pericolosamente prossima al modernariato. Questo modo di mettere in scena Wagner di Chéreau e Peduzzi, piace ancora, sebbene assai poco mutato dalla prima Tetralogia di Bayreuth ( ed il Tristan non è certo la Tetralogia nei suoi significati simbolici….), ma è comunque …….ampiamente dejà vue, logoro.
Del cast vocale solo la Meier e Salminen appartengono alla generazione di regista e direttore.
La Meier, da sempre militante nella schiera delle cantanti–attrici, ha dominato il palcoscenico come da sempre nella sua carriera: la presenza scenica della donna, elegante, sontuosa, sensuale, è la peculiarità dell’artista. La qualità del canto, sia sul piano tecnico che su quello meramente strumentale, è modesta. L’appesantimento vocale e l’ulteriore riduzione di estensione nella zona alta hanno prodotto un canto spesso duro e monocorde, privo di legato, talora addirittura urlato nei momenti più concitati (si veda la scena dell’attesa all’inizio dell’atto II, l’inizio del duetto d’amore); ovattata in prima ottava ( singolare per una cantante che nasce mezzosoprano ) oltre che senescente e acida nei centri. Ha supplito, davanti ad un pubblico che da sempre la ama moltissimo, con la forza fisica, la sicurezza scenica ed un consumato mestiere. E poi dove la cantante non poteva per forza di cose, è sempre arrivato lui, Baremboim, che ha cantato, accompagnto, sottolineato opportunamente ogni sua intenzione con l’orchestra, rafforzando col canto dell’orchestra quello di lei e coprendone quasi tutte le pecche ( vistosi i cali di intonazione negli acuti ) . Era impossibile separare la voce dalla buca: fantastici! Con un altro direttore, però, sarebbe stata tutt’altra storia. E non per lei sola, anzi.
Ian Storey non ha una voce adatta al ruolo, soprattutto perché dispone di un mezzo limitato, una voce di fatto parlata e per nulla proiettata, che nemmeno nel terzo atto è riuscita a fasi udire facilmente. Privo della risonanza (nel duetto d’amore sembrava di ascoltare un cantante confidenziale) e dell’accento necessari, ha finito per cantare con una voce sforzata, dura e monocorde, aggravata da un timbro baritonaleggiante. Il personaggio, soprattuto a fianco della Meier, non ha mai preso corpo nemmeno scenicamente, nè nel lato eroico nè in quello amoroso, nè in quello sofferente. La passione di Tristan è trascorsa, cantata e interpretata dalla buca sola, poiché tanto poco ha potuto la voce di Storey da essere anche qui spesso coperta dall’orchestra.
Michelle De Young, ufficialmente una specialista del canto wagneriano, è stata forse la peggiore della serata. Voce inadatta, piccolotta e perfino stonata, ha veramente contribuito a disturbare il II atto, come buona parte del duetto con Isotta al primo.
Salminen, senescente vocalmente ed anagraficamente, ha cantato male, con voce di brutto timbro, senza alcun legato, e con suoni duri e forzati. Il Kurwenal di Grochowski: più che altro, un caratterista.
Insomma, in scia all’ultima messa in scena scaligera, un Tristan und Isolde per direttore e orchestra solisti. Con buona pace di chi si scaglia tanto contro i vociomani, è stato Barenboim che ha trascinato e sorretto lo spettacolo, supplendo lucidamente alle carenze di tutti, e se non ci fosse stato lui sarebbe stata ben altra serata.
gg-dd-at
Complimenti! L’articolo sul Tristano dell’apertura scaligera è davvero esauriente. Condivido del tutto i giudizi dell’autrice.
Tatiana