Nel 1871 Enrico Panofka, che aveva udito la voce di Rubini dal vivo, così la descriveva: La voce di Rubini era, ad una volta, d’una maschia possanza, meno per l’intensità del suono, che pel suo metallo vibrato, della più nobile lega, e d’una rara flessibilità, al pari d’un soprano leggiero: cosicché egli arrivava alle più alte note del soprano sfogato con una sicurezza ed una purezza d’intonazione così meravigliose, che si sarebbe tentato di crederlo un castrato. Rubini teneva, ad un tempo, del tenore di forza e del tenore leggiero: e cantava in modo impareggiabile ed ugualmente bene, la parte di Otello e la parte d’Almaviva, di Pollione e d’Arturo, d’Elvino e Don Ottavio.
Così l’opera ebbe con Rubini una nuova era per tenori; e poiché egli apparteneva agli uomini di genio, così, non solamente egli non formò scuola, ma ispirò per giunta il suo compositore di predilezione a scrivere particolarmente di lui; dond’è venuto che le ultime Opere di Bellini son quasi scomparse dal repertorio. L’aria che dà la più giusta idea dell’immensa esecuzione di Rubini, era l’aria della Niobe di Pacini.
Uno de rari meriti di questo cantante consisteva nel potere cantare pianissimo, e far già così un grande effetto; di servirsi del primo registro ( volgarmente e falsamente chiamato di petto ) fino al sol solamente, e d’avere unito il primo al secondo registro in modo, da potere, senz’ombra di sforzo, emettere collo stesso vigore il si b, il si e il do. Così il suo do non è mai stato chiamato do di petto; ma era più bello, più luminoso, più potente che la nota forzata dei tenori del do. I quali non si possono abbastanza biasimare, perché hanno ucciso l’arte del canto e un buono numero di poveri giovani, i quali avrebbero potuto essere utili ai teatri; senza la mania di cercare, prima di tutto, il do per ispaccarsi il petto.( E. Panofka, Voci e cantanti, Firenze, 1871, pg. 97-98 )
Un tenore capace, dunque, di affrontare i ruoli di tenore contraltino come quelli di forza, ossia da tenore centrale, che però legò il suo nome a Bellini più che a Rossini e che, soprattutto, avrebbe praticato poco o nulla il registro di petto negli acuti, eseguiti in falsettone. La grande estensione del tenore bergamasco era figlia della tecnica del falsettone, impiegato dal sol in sù, ossia dopo il passaggio di registro.
Meno preciso nella descrizione delle qualità vocali, ma utile dal punto di vista della carriera di Rubini un autore più tardo del Panofka, il Monaldi, che non lo aveva udito dal vivo ( G. Monaldi, Cantanti celebri del XIX secolo, Roma, 1929, pg.69-77 ) Sottolineava ampiamente le umili origini di Rubini e gli esordi difficili, dapprima con compagnie itineranti nel nord Italia, poi tra Milano, Pavia, Brescia ed alla fine Venezia, per l’Italiana in Algeri con la Marcolini. Con la chiamata da parte di Barbaja a Napoli arrivò l’esordio nella capitale italiana della musica, ma fu un secondo tenore, non ancora un primo. Le cronologie del Teatro San Carlo ( Il teatro di San Carlo di Napoli, a cura di C.Marinelli Roscioni, edizioni Guida, Napoli, 1987, vol. II, cronologia ) attestano la sua esecuzione del Norfolk di Elisabetta Regina d’Inghileterra “extensively”, come dice Gossett nella sua presentazione al disco di Florez e che significa 4 rappresentazioni nella stagione 1820-21 ( Colbran, Dardanelli, Nozzari), 15 nella successiva con lo stesso cast, altrettante nel 1822-23. Precisiamo che in sei mesi si andava in scena circa per 100 sere. Ma a quella data i tenori di Rossini erano altri, David, Nozzari e, fuori di Napoli, Garcia. Poi Donzelli sempre le cronologie del San Carlo ci dicono chiaramente. Solo a partire dal 1826-27, ritirato Nozzari, declinante David, Rubini iniziò ad essere il vero primo tenore del teatro. E siccome dal ‘29 Rossini smise di comporre, Rubini divenne sì il tenore del repertorio rossiniano, ma più di tutto il tenore del nascente romanticismo E che la voce fosse mutata, acquisendo maggior ricchezza al centro, lo comprovano i debutti in ruoli come Otello e Rodrigo di Dhu nella Donna del Lago, anche se non si può escludere che ricorresse ai trasporti. Quindi l’esperienza napoletana di Elisabetta Regina d’Inghilterra, che non pare aver più ripetuto, fu quella del giovane tenore che cerca di farsi spazio tra i grandi ed il cui modello era David.
Non sono, quindi, in contrasto descrizioni come quella del Monaldi di un Rubini che, con Tamburini, fiorisce vellutianamente il duetto del Mosè o che viene accusato di “sparire” nei concertati, con quelle del vigore, della declamazione e della voce maschia. Il più delle volte sono, infatti, riferite a due fasi differenti della carriera.
Il rapporto con Rossini, dunque, nonostante la frequentazione del repertorio e l’adattamento dell’aria di Ermione alla Donna del Lago, rientra nella normale prassi dei rapporti fra esecutore e musicista, che, legato all’obbligo di andare in scena, doveva trovare il rimpiazzo ad un autentico monstrum, spartito alla mano, quale fu Giovanni David jr. Se rapporto privilegiato vi fu fra Rossini ed un tenore della generazione successiva ai Nozzari e David quello fu Domenico Donzelli, comprovato da lettere ed assidua frequentazione, sia a Parigi che Bologna.
L’immagine più fedele della voce di Rubini, o meglio del Rubini capostipite e modello del canto tenorile sino al verismo, è nelle parti scritte per lui da Donizetti e Bellini, il musicista cui espressamente le fonti legano il nome di Rubini. Con l’avvertenza che, miglior conoscitore di voci, Donizetti esibiva i famosissimi sovracuti di Rubini ( vedi la cabaletta di Fernando nel Marino Falliero), ma evitava quei fraseggi in zona che appartiene già agli acuti. Anche per tenori estesissimi e capaci di preziosi ( e comodi ) assottigliamenti e di assoluto controlla del fiato. Prova ne sia che le parti scritte da Bellini o sparirono dal repertorio o quasi con il loro primo esecutore (Gualtiero nel Pirata) o, già per il lo stesso Rubini (Elvino di Sonnambula) subirono da subito ritocchi e raggiusti verso il basso.
Con queste dimostrate premesse l’eguaglianza Rubini – Florez, al di là del fascino della trovata pubblicitaria e commerciale, non regge.
In primo luogo perché, per il momento, Florez ha praticato abitualamente opere ( Cenerentola, Barbiere) che poco furono di Rubini o alla quali Rubini non deve certo la propria fama. I rapporti con il Rossini tragico di Florez sono limitati a Rodrigo di Otello ( Rubini passò alla storia per il title role, invece ) e quindi in comune rimarrebbe il Giacomo V della Donna. Occasionale il rapporto con Arturo dei Puritani sempre da parte del tenore peruviano.
E siccome il signor Florez si dice sia impegnato sino al 2015 e di debutti in Pirata, Niobe e Talismano di Pacini, Anna Bolena e Gianni di Parigi di Donizetti per tacere di Pollione, Edgardo o Arnoldo non se ne parla, o lo si esclude apertamente, che il raffronto sia commerciale non ci vuole troppo a capirlo e dimostrarlo.
Quand’anche così non fosse, scelte come l’aria di Norfolk o di Arnoldo non sono certo connotanti della vocalità e delle qualità di Rubini. Sorge poi, fondato e legittimo che nel primo personaggio Rubini, attesa la scrittura di vera forza e molto centrale, ricorresse a trasporti ed aggiusti.
Una vera operazione culturale vorrebbe l’esecuzione che di questa prassi tenesse conto, soprattutto se il fine dichiarato è la storicizzazione di una cantante.
Insomma il vero omaggio a Rubini avrebbe dovuto essere dedicato a pagine che furono create per i tenore non che il tenore, alcune addirittura occasionalmente, cantò.
Non solo, ma non è questo il solo limite del programma storicizzante del tenore peruviano: l’incolmabile è dato dal raffronto fra il canto che udiamo e le descrizioni del canto e dell’interpretazione di Rubini.
La voce di Florez è quella di sempre, con un cospicuo vibrato e note ormai fastidiose fra il fa ed il sol acuti, limitata negli acuti (atteso che oltre il re nat non osa, pur celebrando un cantante per il quale si scrissero fa sovracuti ), senza alcuna dinamica, anche perché la limitata ampiezza, frutto della combinazione fra limite naturale e limite tecnico, consente poco o nulla, con la tendenza ad emettere acuti sparati e a limitare l’esecuzione dei passi acrobatici.
E questi limiti emergono costanti in tutto quanto il recital, come emergevano nell’antipasto offerto dal concerto di Santander l’anno passato.
Nel dettaglio di alcuni brani.
Scena di Ermione trasferita in Donna del Lago.
Florez comincia malissimo con il recitativo, eseguendolo letteralmente e nella versione semplificata, omessi come sono gli “oppure” previsti da Rossini.
Nell’aria, poi, appare il rapporto assolutamente conflittuale fra Florez ed i trilli, di cui l’aria e la cabaletta sono disseminate (Rubini, per la cronaca, era celebre per il trillo che interpolava nell’aria di don Ottavio) a partire dal “grata sperar” dell’andantino. Il “grata sperar” è proprio ingrato per il nostro, in quanto alla seconda comparsa, debitamente diminuito in tre quartine, Florez non esegue quanto previsto.
Le cose non migliorano nell’allegro. In primo luogo l’accento. Ammesso e non concesso che Giacomo V non sia Oreste, l’accento però è quello di un personaggio da Rossini comico, non tragico. Il limite maggiore è la mancanza di ampiezza che impedisce il rispetto delle poche forcelle, previste in spartito. Tralasciamo che sino a Rossini la dinamica era rimessa all’esecutore e che quanto indicato è il minimo, mentre qui siamo al di sotto del minimo. Per completezza: omesse la forcella sul sol acuto di
Riuscita decisamente male la cadenza di conducimento fra le due strofe per la presenza di una serie di trilli discendenti dal fa acuto al do centrale e, peggio ancora, il tentativo alla variante di “crudo poter” di inserire ribattiture. Ribattiture che ho sentito eseguire fluidamente da due soli cantanti rossiniani, ossia Blake e Dupuy.
Per altro gli inserimenti nel da capo sono di ridotto tasso acrobatico (ed espressivo, quindi) limitati a qualche acuto come il si bem interpolato sul “vittima” della battuta 109 o la riduzioni del testo, come le quartine omesse alla battuta 113 ed alla battuta 125 sulle parole “piacer voluttà”. La serie di quartine vocalizzate che sono fra le più impressionanti ornamentazioni rossiniane, se ben eseguite, sono decisamente ostiche a Florez ( vedi Otello di quest’estate a Pesaro decisamente ostiche a Florez ). Taciamo anche delle forcelle spazzate via….
Cavatina di sortita di Gualtiero del Pirata , ovvero dell’opera che fece di Rubini RUBINI.
Eroe romantico, malinconico ma eroico, virile anche nella tristezza e non certo sdilinguito è Gualtiero. Ma Florez approda sulle spiagge di Caldora in piena defaillance timbrica, esibendo una voce da opera buffa settencesca, seppure decisamente più piena della realtà del teatro. Il suo canto manca subito di piglio nel recittivo come di ampiezza nell’aria, come dello slancio necessari nella cabaletta. Colpisce anche la difficoltà di trovare colori e pienezza di accento, in parte a causa del mezzo naturalmente inadatto, ma in parte anche a limiti tecnici, evidenti laddove la sfumature dinamiche sono realizzate con suoni opachi, talora indietro come nei la del rallentando della cabaletta, o nell’omissione della forcella scritta su “ di possederti ancor….”.Per quanto l’esecuzione musicale qui appaia più precisa rispetto a quella dell’aria della Donna, Florez dà prova di non sapere proprio che farsene dei segni di corona che costellano il brano, dal recitativo alla cabaletta. Segni sui quali non esegue mai alcuna variante né cadenza, come sarebbe la prassi stilistica del tempo, a maggior ragione nel tentativo discografico di assimilarsi a Rubini.
Insomma, in questa scena i limiti vocali del peruviano emergono pian piano di pari passo con la fatica: il breve passo di agilità della frase “nulla io spero”, da eseguire “di forza” stando a Bellini, scorre via senza accento; le puntature al re di “Ah si vorrei ah si vorrei….”, sono strozzate e veramente ghermita quella del da capo; sino all’omissione del si bem che segue le due battute di quartine di “allor la morte …la morte allor..”. Insomma, un’aria poco adatta alle caratteristiche vocali di Florez.
Cavatina di sortita di Ferdinando del Marino Falliero.
Nel recitativo la figura ornamentale sulla parola “addio” è strascicata. Cade sulla zona di passaggio della voce, pergiunta in moto discendente. I mezzi trilli che compaiono sono omessi o pasticciati. Sono anche pasticciate le figure ornamentali di “aure amiche non v’udrò”, dove fra l’altro il solito moto discendente è poco propizio a Florez e dove l’esecuzione richiederebbe una assoluta libertà di tempo e non l’esecuzione metronomica. Non è questa la sede per dirlo, ma tutti i tenori ante Caruso erano maestri nella libertà del tempo, che diveniva poi varietà interpretativa. Le note di lunga tenuta, in particolare il fa di “no giammai” , non sono limpide e saldissime.
Nella cabaletta comparirebbero i fa sovracuti. Sono un optional, ma Florez non li esegue neppure come variante al da capo. Fra l’altro la nota stratosferica, da emettere in falsettone, è scritta ben preparata, in una figura ornamentale breve e non in tessitura stratosferica; non richiede nemmeno lunghezza di fiati. L’omissione sarebbe comprensibile, ma in un disco ove si dichiara apertamente la volontà di riproporre la vocalità di Rubini, come scrive Gossett nel libretto del disco, questa è grave mancanza. (…among modern tenors, Juan Diego Flórez is the acknowledged master of this type of vocalism: the pairing of Flórez and Rubini appears inevitabile… ). Certo, anche il re scritto non è eseguito alla perfezione, perché la figura ornamentale richiede una sicurezza sul passaggio che non sembra, visto il risultato, essere fra le doti preclare di Florez.
E il pensiero non può non andare alle parole di Gianfranco Mariotti alla conferenza stampa di presentazione della stagione 2007: “Naturalmente il divismo non è scomparso – perché dovrebbe – ma è di tipo diverso: meno futile e chiassoso, più colto e riflessivo. Una vera evoluzione della specie si è prodotta nel settore: il moderno cantante rossiniano di livello accompagna di solito al talento la civiltà e l’intelligenza, ma soprattutto una nuova peculiare disponibilità, quella ad accettare i limiti imposti dal rigore musicologico; a rinunciare a un sopracuto o a una cadenza se giudicati incongrui o fuori stile; a cantare eseguendo movimenti impegnativi o scomodi, se ciò giova al risultato finale. Dunque non più genio e sregolatezza, ma il fascino discreto della normalità; un appeal più evoluto e attuale, fatto di professionalità e serietà”.
Beh, su una cosa ha proprio ragione: che il divismo non è morto………..ma quanto al canto dei divi ed alla filologia ………siamo male in arnese!
POSTATO DA DOMENICO DONZELLI E GIULIA GRISI
Riflessioni molto appropriate. Anch’io nel solo prendere atto del titolo Florez canta arie per Rubini mi sono detto che proprio la cosa non reggeva, per i motivi voi sottolineati e, fondamentalmente, per motivi tecnici. l’ascolto non era nemmeno necessario. su florez in generale, comunque, non sarei così negativo.
la considerazione che volevo esprimere è tuttavia un’altra. credo che l’unico tenore che possa dare un’idea abbastanza fedele di ciò che era davvero rubini è stato morino. se si ascolta il suo pirata (in specie il “tu vedrai”) di martina franca, abbiamo davvero un tenore che assomiglia a quello delle cronache relative a rubini. per me, la registrazione dal vivo di questo brano è uno dei maggiori saggi di canto tenorile che sia documentato.
cordiali saluti.
emanuele stauffer, lugano, svizzera
Caro Emanuele, purtroppo nessuno di noi ha potuto ascoltare la voce di Rubini, e dobbiamo quindi ricorrere a due fonti: le testimonianze dell’epoca e la musica che i Grandi hanno scritto per lui. Oggi si tende, attraverso un uso direi “criminale” della filologia (o meglio di una sedicente filologia), a relativizzare e ridurre il mito in leggenda metropolitana da smentire. L’intento è evidente: salvaguardare la mediocrità (in particolare dell’oggi) sterilizzando il confronto. Ti ricorderai della “querelle” nata circa l’edizione filologica della Sonnambula con la Dessay e Meli, abbassata come e più di quanto era già tradizione fare, ma spacciata da sedicenti filologi come l’autentica scrittura belliniana. Tentativo grottesco e pietoso di mistificazione! Purtroppo assai diffuso.. Questo album di Florez è sulla stessa linea: si prende un mito del passato e lo si cuce addosso ad una “rockstar” del presente (a prescindere dalla reale attinenza di ruoli e di vocalità). Puro marketing (stesso discorso per Bartoli/Malibran). Per mio conto Florez ha un suo repertorio d’elezione e assai male sta facendo ad affrontare ruoli assolutamente fuori dalla sua portata (da Rodrigo al Duca di Mantova). Ha/aveva grande facilità nelle agilità e negli acuti (recentemente le qualità paiono appannate), ma manca totalmente di dimensione eroica, di accento tragico, di piglio drammatico. Ergo certi ruoli non gli stanno per nulla.
Su Morino sono d’accordo con te. Ha cercato di darci un’idea di cosa poteva essere il tenore romantico tra Bellini e Donizetti. Purtroppo è stato vittima di pregiudizi e preconcetti. E di irrisione ingiusta e fastidiosa.
Ps: ti consiglio uno splendido recital di tenore belcantista, “The Eroic Belcanto Tenor” – Chris Merritt.
Un saluto
pero’ la sciura Grisi! bel lavoro su Rubini. Merita un bel ripasso da parte d tutti