Con le migliori intenzioni: Simon Boccanegra a Bologna


La stagione del Teatro Comunale di Bologna si apre con una nuova produzione di Simon Boccanegra. Nuova in tutto: nell’allestimento, nel cast (composto perlopiù da giovani interpreti, segnatamente nella seconda compagnia), nella bacchetta scelta a condurre in porto una delle più belle e complesse opere di Verdi. Insomma, si respira la stessa aria le cui fragranze ci sono divenute familiari nel corso dell’ultima edizione del Rossini Opera Festival, e analoghi appaiono i risultati. Certo, bisogna tener conto che per molti si trattava di un debutto nel titolo, e per alcuni addirittura di un debutto tout court nel repertorio di fine Ottocento: ma sarebbe fare un torto al professionismo degli interpreti, e soprattutto a una scena forse declinante, ma dalla storia gloriosa, come quella di Bologna, parlare di questo Simone quasi non foss’altro che un saggio di fine anno in Conservatorio.

Va detto che, memori della claudicante Italiana in Algeri della passata stagione e di un pomposo concertino nazional-popolare del mese scorso, a base di pagine del melodramma italiano che parevano riscritte per coro e banda, ci attendevamo ben poco dalla concertazione di Michele Mariotti. Il giovane direttore si è evidentemente preparato a lungo sulla partitura del Simone, optando per tempi stringati (slentati qui e là, verosimilmente onde non perdere le fila della polifonia) e concentrandosi più sulla compattezza degli assieme che sul cesello delle singole parti. Insomma, quella che ne è uscita è una lettura scolasticamente corretta (a parte le inevitabili, a chi non abbia lunga pratica del titolo, sfasature in taluni attacchi – penso in particolare al Palazzo degli Abati – e gli evitabilissimi spernacchiamenti di ottoni non sempre disciplinati) che non è ancora interpretazione, vuoi per la giovane età di un Maestro alla sua prima avventura nel melodramma verdiano, vuoi per la non certo esaltante qualità di un doppio cast che ha faticato non poco (con le debite eccezioni, si intende) per passare l’orchestra e, più ancora, presentare agli spettatori una lettura purchessia del dramma che Piave e in seguito Boito derivarono da Gutiérrez.

Ma com’è noto, non esiste interpretazione possibile senza una linea di canto atta a sostenerla. Per questo verrebbe voglia di liquidare senz’altro il Simone di Roberto Frontali (primo cast), sempre più tenorile nell’impostazione, ridotto a urlare per farsi sentire (scena del Palazzo degli Abati), incapace di legare i suoni e affezionato al falsetto quanto un Falstaff di periferia (da incubo il suo “Figlia” e tutta la scena finale). Al suo fianco Carmen Giannattasio, voce lirico leggera che si fa stridula all’acuto e presenta un registro centrale vuoto e gravi prossimi all’inesistente (la “scure del carnefice” è stata, con malinteso senso del concetto di parola scenica, detta più che cantata). Il tenore della prima compagnia è Giuseppe Gipali: un piccolo (anche in termini di volume vocale) Alagna, più vicino a Nemorino che al nobile Adorno. Basta poco, come è facile intuire, perché possa emergere il Fiesco di Giacomo Prestia, che malgrado l’accentuato e preoccupante (vista la giovane età) vibrato nella voce, vanta una solidità sconosciuta ai colleghi: peccato che a questa non si accompagnino altre doti, quali la capacità di sfumare i suoni e variare minimamente il fraseggio, che gli sarebbero certo state utili onde non fare del crudele e aristocratico guelfo un torvo frequentatore degli angiporti.

Discorso a parte merita Marco Vratogna, che, non pago di avere “declamato” la parte del favorito del Doge nella prima compagnia, ha assunto su di sé l’onere del ruolo del titolo in due delle repliche. Non si tratta certo di un unicum: lo stesso Leonard Warren fu al Metropolitan dapprima l’infido filatore d’oro e anni dopo (anni, non giorni) il Doge. Tuttavia qualche differenza fra i due ci deve essere, alla tetra luce di una scena finale che, dopo una serata passata a imitare l’emissione di Guelfi (Carlo, non Giangiacomo) e del Nucci più terragno, ha visto il cantante prodursi in un florilegio di volenterosi pianissimi che sono in effetti suoni sfocati e spoggiati. Sofia Mitropoulos (cognome impegnativo, soprattutto in un’opera come questa!), voce agra ma omogenea in tutta la gamma, corta in acuto e corposa nei gravi, sarebbe una decente Santuzza, ma alle prese con l’eterea e determinatissima creatura verdiana denuncia tutti i limiti di un fraseggio scarsamente fantasioso e di una tavolozza di colori molto limitata. In luogo di Jean-Pierre Guido, ufficialmente indisposto (ma nei corridoi si è parlato di protesta), abbiamo udito Evan Bowers, noto alle cronache per avere salvato la prima (e numerose repliche) del Ballo parigino di qualche mese fa. La voce, tutt’altro che bella, passa senza intoppi l’orchestra e lo squillo è buono, ma l’acuto presenta asprezze diffuse, l’intonazione è spesso al limite, i piani e pianissimi privi di consistenza e i segni d’espressione restano quasi tutti sulla carta. L’unico che provi, con tutti i limiti del caso, ad accentare, a variare la linea di canto, a dare insomma un senso al testo musicale, è il Fiesco di Carlo Cigni, che però non pare possedere l’ampiezza strumentale richiesta (nei concertati, e ovunque l’orchestra accenni un “forte”, letteralmente sparisce) e soprattutto non sembra un basso, neppure un basso chiaro (tanto che sarebbe interessante sentirlo come Simone, o meglio ancora come Paolo). Il villain era Sebastian Catana, tutto digrignar di denti e voce bella indietro.

Ci sarebbe poi da dire del pauperistico spettacolo di Giorgio Gallione (due muri biancoverdi, proiezioni marine, un albero, una scalinata, una sorta di gazebo e una panchina onnipresente quanto superflua all’azione scenica: Paolo è ridotto ad appoggiare il calice avvelenato… sulla scalinata e il Doge sui medesimi gradini cerca il conforto del sonno), ma francamente non ci sentiamo di buttargli addosso la colpa della noia che ha pervaso le due serate cui abbiamo assistito: con una compagnia così, non sarebbe bastato uno Strehler redivivo.

La première del 13 novembre (ovviamente primo cast), trasmessa in diretta dal circuito Euroradio, è facilmente reperibile on line: ecco la scena finale della replica del 17 novembre (secondo cast).

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