Decisamente plumbei i Vespri Siciliani che hanno aperto la stagione genovese (serata inaugurale trasmessa in diretta dal terzo canale di Radio Rai e in differita ieri sera dalla radio norvegese). Opera di non facile allestimento, il primo cimento verdiano (se si esclude il rifacimento Jérusalem) nella magniloquenza di gusto francese rischia, se affidato a interpreti inadeguati, il naufragio tra la noia e lo sconforto del pubblico. Il che è per l’appunto avvenuto.
Una partitura come quella dei Vespri non può essere affrontata con la monocorde “brillantezza” (più adatta a un Don Pasquale che a un grand-opéra) adottata fin dalla Sinfonia da un Renato Palumbo persino più pasticcione di quanto udito in Pesaro l’estate passata: colori smunti, tempi inutilmente pimpanti (la comica rivolta finale) e quel che è peggio attacchi sbavati e frequenti scollature buca-palco. Si vede che la grande direzione d’orchestra percepita dai critici dei quotidiani, per radio, non passa! Ugualmente misteriosa resta la scelta di tagliare un po’ ovunque la partitura verdiana (con l’omissione totale della siciliana del tenore al quinto atto), segnatamente in epoca in cui il rispetto dell’integralità del testo musicale pare totemica necessità (vedi maratone barocche, con la significativa eccezione proprio del Carlo Felice, teatro in cui la Cleopatra haendeliana può perdere la sua grande aria finale senza che gli astanti facciano una piega… viva il buon cuore del pubblico genovese). Ma è sul palco che si sono manifestati i veri problemi, a partire dal tenore Casanova, che la perizia critica di Andrea Merli ci ha additato come novello Bergonzi, tutto un urlo e un impiccamento fin dal recitativo d’entrata, miagolante quando vorrebbe farsi morbido, tragicamente indietro, privo di squillo e d’incisività nel fraseggio. Degno padre di tanto figliolo un Franco Vassallo più intonato e meno fibroso del solito, ma tendenzialmente muggente e col fiato corto specie nella celeberrima pagina In braccio alle dovizie. Il timbro cavernoso, l’accento esageratamente torvo, la dizione improbabile di Orlin Anastassov ne fanno un Procida senescente ai confini del comico, mentre la Duchessa Elena della Radvanovsky, dall’acuto agro e gutturale al grave, affronta i primi due atti in modo non più che discreto (ma la voce, più che alla nobildonna austriaca, fa pensare a un’allegra comare di Windsor in trasferta sicula), per crollare al terzo e offrire nel quarto un Arrigo ah! parli a un core strillacchiante e a tratti ululato. Problemi che si ripetono al quinto atto, con un Bolero a tempo di requiem e nondimeno affannoso (mercè diletto Palumbo) chiuso da un acutino al di là del bene e del male. Insomma la cantante americana non manca totalmente di musicalità e il vibrato caprino (vedi Borgia di Las Palmas) appare meglio sorvegliato del solito, ma il ruolo verdiano è per lei troppo arduo cimento, ché la signora, a onta della voce sicuramente importante, non può dirsi soprano drammatico. Ma che importa, del resto? Il pubblico sembra aver gradito. Clap… clap… clap!